giovedì 14 gennaio 2016

Synecdoche, New York

Produzione travagliata, ma risultato interessantissimo, con intuizioni e colpetti di genio sparsi. Philip Seymour Hoffman interpreta Caden Cotard, regista ipocondriaco e depresso che a seguito di un premio, e dopo un'intera carriera dedicata ai classici rivisitati, medita una piece finalmente personale, "sincera". Abbandonato dalla moglie pittrice, tra gli stenti di una vita affettiva che deperisce nella multifobia, inizia a elaborare il suo progetto grandioso: una scena collettiva, in una specie di hangar, dove rappresentare la verità. La sineddoche ridimensiona in termini narcisistici questo Tutto (New York) in un piccolo orticello privato: l'esistenza del regista e le sue relazioni fallimentari. Il Tempo sfugge: dopo anni di prove inconcludenti, un anziano che ha osservato il processo fin dall'inizio, si candida a interpretare il regista (il personaggio Caden Cotard), e inizia a seguirlo (come un'ombra) per entrare meglio nella parte. Presto è chiaro che la scena è anzitutto a casa; la nuova moglie, per esempio, è un attrice che interpreta se stessa; poi anche lei abbandona Cotard, e viene sostituita, pur restando - come personaggio - nello "spettacolo". Il vero soggetto della rappresentazione diventa il laboratorio teatrale in sé, e i rapporti fra attori e personaggi. Questo continuo sdoppiamento di ruoli a tratti è esilarante, con Cotard pedinato dal suo alter ego, il quale a sua volta ne subisce uno di scena, e così via. Sosia grotteschi, comparse rimproverate perché non camminano "come cammina la gente", l'assistente vera e quella che la impersona, gli incroci tra realtà e finzione, gli scambi d'identità - il gioco al massacro della rappresentazione (vita è teatro, teatro è vita) rimanda di continuo alla farsa interiore dell'artista e a una schizofrenia emotiva senza limiti.

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