mercoledì 16 novembre 2016

BENEDIZIONE di K. Haruf

Romanzo amatissimo su aNobii, è perlopiù un monotono bollettino, una cronaca di provincia con gretti paesani, zitelle, coniugi divisi fra la croce della monogamia e quella dell’adulterio; più una bambina taciturna e un reverendo incompreso. Si legge con blando interesse, registrando dialoghi strumentali che informano il lettore su tutto il pregresso. I tempi narrativi risultano sfasati: l’azione repentina di uno schiaffo, per esempio, “telefonata” in una sorta di moviola; ogni colpo di scena smorzato nella generale prevedibilità della vicenda. I sentimenti dei personaggi sono dichiarati, per cui manca qualsiasi tensione; i rapporti seguono una linearità deprimente, ancor più depressa nella prosa-telegrafo (soggetto predicato complemento) che si anima soltanto in alcune descrizioni paesaggistiche. Ma la pianura, la sua tremenda aridità, offre pochissimo anche in questa direzione. Quindi si assiste all’agonia di Dad, il burbero proprietario della ferramenta, sperando che Haruf non la tiri troppo in lungo. E, invece, il pover’uomo non muore mai, vegliato da una moglie devota e da una figlia che non riescono a spingere le loro elucubrazioni luttuose oltre i confini di una soap. L’immedesimazione e il pathos in ultimo trovano appiglio nell’irregolarità respiratoria e nei rantoli; mentre il corpo inizia a coprirsi di lividi e gli occhi, al di qua e al di là del capezzale si fanno lucidi. E la fine, sì, è davvero una benedizione.

giovedì 10 novembre 2016

MENTRE MORIVO di W. Faulkner

Una delle ragioni che spingono alla lettura di Faulkner è provare a capire perché Elio Vittorini, per esempio, abbia cominciato a imitarlo: indagare quel gusto libidinoso a eliminare gli articoli, come fanno alcuni quando si rivolgono a uno straniero, o a lasciare sottinteso il soggetto della frase, in modo che non si possa seguire l'azione, ridotta a una scommessa per lettori che se ne intendono, disposti cioè a tornare indietro di continuo. Ci si imbatte in una certa avarizia sintattica che poi, all'improvviso, concede fin troppo, con immagini prolisse, tipo un cavallo che impenna in un labirinto di zoccoli. All'inizio va così, maluccio, fra crescenti perplessità anche in rapporto all'ineluttabile flusso di coscienza (il libro è scritto nel 1930), con singolari costruzioni, ripetitività sclerotiche, verbi che reggono all'inverosimile in una sorta di forzata carpenteria cognitiva, poco verosimile per chiunque, non solo per dei contadini. La ruralità del contesto, questo Sud del cotone, delle baracche, dei fiumi che esondano e dei ponti sommersi nel fango, stride di brutto con i discorsi ontologici di alcuni personaggi, che per un terzo dell'opera si avvicendano senza imporsi nella loro specificità, come una polifonia che non varia mai, che si amalgama - anzi - in un coro monotono pieno di tristezza e fatalismo. Ma il lettore, perfino il più ostile e diffidente, ogni tanto non può che sbalordire per la forza di un'immagine: è quella che si usa definire la potenza icastica di Faulkner - una notte di buio pesto e un vitello impantanato, la cui presenza è ricostruibile attraverso i singoli rumori che emette; o il falegname Cash, quando prepara la bara per la madre al bagliore di una lanterna posata per terra, e ogni suo movimento colpisce la luce in una specie di autosottolineatura involontaria (il gomito, la lama della sega, il dentro e fuori di quel tagliare il legno). Se si era pronti a crollare sulla pagina, ecco, ci si sveglia di soprassalto alla poesia dirompente di questa sintesi assoluta, come una strada che entra "dentro gli alberi". Io ho ricordato il disegno di un bambino: raffigurava un suonatore di fisarmonica e sembrava uno sgorbio con braccia e mani sproporzionate, ma rendeva benissimo l'avanti e indietro del mantice. Faulkner ha fatto scuola, credo, proprio per la sua straordinaria capacità di rottura: ha cioè rotto il giocattolo-letteratura, ma ci ha restituito dei singoli ingranaggi con un nitore rarissimo, perfetto; con la poesia spietata della fanciullezza. Bisogna perciò studiarlo, e non leggerlo. Va prima compreso, e soltanto dopo, con rinnovato stupore, goduto.

lunedì 7 novembre 2016

PASTORALE AMERICANA di P. Roth

Bisogna domandarsi se a Newark, per esempio, leggerebbero un romanzo ambientato nel nord-est d'Italia, incentrato su un'epopea di artigiani divenuti imprenditori, gente immigrata dal sud, supponiamo, che ha cominciato in una botteguccia per approdare in fabbrica, patriarchi che hanno sacrificato i loro anni migliori sgobbando con fiducia pur di tramandare ai loro figli un mestiere e una coscienza nell'esercitarlo; e poi figli oramai sistemati, anzi ricchi, che hanno capitalizzato anzitutto questo insegnamento, che hanno ereditato una quasi-multinazionale in cui l'operaio è non solo rispettato, ma in certo qual modo sacro, e il lavoro stesso una liturgia che produce sì profitto, ma etico, con manufatti in cui ogni dettaglio è curatissimo e che al solo acquistarli ti si allieta il cuore. A corredo della pastorale nord-est abbiamo lo sport, la provincia, la scuola e la parrocchia: un romanzo italiano in cui si metaforizza il calcio, cioè l'allenamento per la vita, parecchio descrivendo i ruoli di gioco (terzino, centravanti) e il gesto tecnico (calciare tenendo il corpo all'indietro e non beccare mai la porta); si metaforizza la strada, quei luoghi interiori così legati alla fanciullezza dei primi baci e delle risse un po' romantiche, con tanto di quartieri affettuosi, periferie in cui già cova la futura violenza, nomi di vie e piazze, lunghi itinerari da casa fino all'oratorio di San Giuseppe: sole sui tetti dei palazzi in costruzione, sole che batte sul campo di pallone, etc. Come la prenderebbero a Newark? Leggerebbero dello sfaldamento di questo Piccolo Mondo Antico e di come a incrinarsi sia per prima la famiglia, con la repressione in extremis dell'incesto, con Edipo che a volte si piega ai voleri di papà, per identificazione passiva, altre volte si ribella e gli cava gli occhi, magari per sbaglio? Insomma, non soltanto politica, ma psicologia, relazioni, e quindi tradimenti. La decadenza morale sancita, a livello generale, dalla purga del Sessantotto, quando i sindacati cominciano "a metterla giù pesante" con i diritti, e gli operai, di riflesso, si impoltroniscono. La qualità dell'industria, poco a poco, va in malora. I nipoti della quarta generazione non vogliono più studiare, né lavorare, improvvisano carriere eversive e alla fine ci scappa il morto. Questo romanzo italiano avrebbe un grande successo di critica a Newark e nel resto d'America, se ci fosse dietro lo stesso editore di Pastorale americana, e lo stesso apparato culturale teso a enfatizzarne i temi, la complessità di visione che li concatena in un tutto organico. Sia detto non per sminuire il lavoro di Roth, che è buono, ma per rilevare che il suo libro ha goduto di una spinta ENORME se ancora si sospira, sfogliandolo, con la parola "capolavoro" a fior di labbra. Possibili tag: intellighenzia ebraica, New York, Vietnam, Partito democratico, Sessantotto, baseball, famiglia, integrazione religiosa, mondo operaio nella sua genuinità. No, non è un capolavoro. E' un romanzo dall'impianto tradizionale, nonostante i piani temporali sfasati da anticipazioni e flashback, con un narratore onnisciente che fa capolino e versa sul piatto dei lettori il sugo della storia. Una specie di Manzoni yankee ebreo deciso a una seria autocritica nazionale. Uno che più che filosofare si propone come filosofo, e getta l'ombra ingombrante dell'Io-penso-che su ciascun personaggio - tutti oratori impetuosi che costringono l'interlocutore ad ascoltarli in silenzio per due o tre pagine. Un americano, al solito, "dannatamente" vanitoso, che ripropone la vecchia ampia falcata da romanzo europeo ottocentesco, divulgativo, politico, artigianale, botanico, psicologico. Uno che ritiene d'aver capito il fallimento dei tempi, e vorrebbe darci una lezione. Anche di baseball.

mercoledì 26 ottobre 2016

LE CONFESSIONI di R. Andò

Non mi è parso granché significativo, retto a malapena dall'efficacia di Daniel Auteuil e Toni Servillo - il primo direttore del Fondo monetario internazionale, il secondo monaco certosino. La scena è una sorta di Bilderberg ristretto in cui è prevista la "ratifica" di una manovra economica spietata che eliminerà diversi stati europei (anche l'Italia, par di capire). L'impianto moraleggiante tradisce, nella migliore delle ipotesi, una certa ingenuità, con ministri malvagi che confabulano nuotando in piscina e qualcuno, va da sé, che sussurra i propri rimorsi e potrebbe vedersela brutta. C'è anche una rockstar, e un'autrice di libri per bambini che fattura più della Barilla. Lo stesso Servillo è uno scrittore, maitre à penser del cattolicesimo all'antica o, per estensione, alla Bergoglio - si potrebbe ipotizzare una teologia della liberazione con Scampìa al posto di Buenos Aires, e quindi la fissa marxista dei poveri e dei reietti trasferita in questo albergo metafisico del Capitalismo, dove i cattivi la subiscono controvoglia e si inaspriscono (perfino tra di loro). Il tedesco, sempre un po' nazista, si porta dietro un cane nero; c'è anche la Clinton in video-collegamento perché - ecco il giallo - il direttore del Fondo monetario internazionale si è suicidato dopo un colloquio notturno col monaco. A rigore è stata una confessione, e quindi, per non saper né leggere né scrivere, il monaco ormai sa troppo. La trama sviluppa l'ostinato silenzio di Servillo, e le esitazioni di alcuni invitati fra i quali brilla - per incertezza - il solito italiano mezzo pentito. Il sugo della storia è nella manovra che salta, perché l'italiano fa il cattolico e gli altri cedono alla forza dello spirito certosino, paragonabile al canto di un uccello rarissimo che impone l'ascolto alla natura intera. Alla fine, in rappresentanza di Dio, il monaco celebrerà il funerale di Daniel Auteuil, il Male. Va detto che sughi della storia affidati a un monologo, nella fattispecie a un'omelia, sanno spesso di fumo, ci dicono che la pentola s'è bruciata. Era brutto Chaplin che tirava le fila in "The great dictator", e non è bello Servillo che parla al vento e se ne va (insieme al cane tedesco, perfino lui redento e ribattezzato "Bernando").

martedì 25 ottobre 2016

DALL'ELLADE A BISANZIO di A. Arbasino

Non è il libro della nostra vita; bisogna leggerlo avendo Google vicino, così si apprenderà senz'altro qualcosa. Aneddotica da salotto letterario, anzitutto, ma snobbando il salotto in sé, e anche i suoi ospiti. Da qui, la vaga antipatia riscossa qua e là da Arbasino - pur sempre uno che già nel 1960, trentenne, molla Roma alle Olimpiadi e se ne va in Grecia con gli amici. Il suo umorismo da dandy a tratti è odioso: vi riverberano (esageriamo, tanto non si offende) matinée di sciacallaggio nozionistico fra teatranti romani e professori, lunghi pomeriggi di ozio regolamentato da un istitutore, e magari la lampada Gallè sui tomi antichi imprestati dal cardinale amico di famiglia. Insomma, se uno brama lo scrittore che viene dal basso, quello che sfila la tuta da metalmeccanico e, dopo una bella doccia, siede al suo tavolo per riscrivere "Cronache di poveri amanti" senza punteggiatura, deve subito buttare via questo libro. Tutto sommato può farlo anche chi crede nelle gerarchie dello spirito e negli scrittori in scia Zarathustra. Qui non si rischia l'abbaglio del genio, ma al più una bella sghignazzata, all'incirca una ogni tredici o quattordici pagine (forse troppo poco per insistere?). In passato avevo letto con gusto "Specchio delle mie brame" e con divertimento via via decrescente "Super Eliogabalo". Su Wikipedia scopriamo che Arbasino si reputa uno scrittore espressionista. Mi sembra corretto, se consideriamo che il suo intero apparato compositivo si occupa di esteriorità: è un coreografo, uno stilista, un arredatore.

Tre film di Valerio Zurlini

La prima notte di quiete, Estate violenta, La ragazza con la valigia. Elementi in comune: la malinconia della provincia con i suoi fallimenti inappellabili; i treni e gli addii alla stazione (di Rimini, di Riccione); gli amori senza speranza per differenza d'età e/o di censo; lo sfondo storico per una vicenda - stringi stringi - amorosa. In "La prima notte di quiete" Alain Delon è un professore di liceo che s'innamora di un'alunna bellissima ma irrequieta (un po' di eufemismi non dispiacciono mai). Lui è un poeta in incognito, con un brutto cappotto che ricorda, in peggio, quello di Marlon Brando in "Ultimo tango a Parigi". Disinteressato alla politica e ai movimenti studenteschi del Sessantotto, fuma in classe leggendo enormi quotidiani e, in generale, esprimendo un decadentismo di ritorno, forse per il padre morto in guerra a El Alamein, forse per una cugina sedicenne, e suicidatasi, alla quale ha dedicato un libercolo di versi. Ha una moglie che trascura per giocare a carte di notte, e la relazione extraconiugale con l'alunna irrequieta, peraltro già legata a un boss locale, rappresenta l'ineluttabile vicolo cieco. In "Estate violenta" il protagonista è J.L. Trintignant: figlio di gerarca e raccomandato in tutto, ma sensibile, fra vitellone e anima bella, insomma fascista per inerzia, con discrete potenzialità nell'ottica di un'abiura che, nel luglio del 1943, comincia a sembrare più che ragionevole. Fatto sta che il giovane imboscato perde la testa per una vedova (la mamma di Alain Delon?) e inizia a corteggiarla nello stabilimento balneare che frequentano. Vanno insieme a San Marino per comprare caffè alla borsa nera, sono attratti fortemente e, dai e dai, si mettono insieme. Ne segue uno scandalo, perché lei potrebbe essere (quasi) sua madre, etc. Quando cade Mussolini, tutto precipita, anche perché Trintignant non può più sottrarsi alla chiamata alle armi. E'il problema della partecipazione nel decadentismo di Zurlini, Alain Delon renitente a sinistra, Trintignant a destra. In mezzo, nel parmense, c'è una villa patrizia e "La ragazza con la valigia", Claudia Cardinale (convincente). Viene a cercare il rampollo che l'ha sedotta e abbandonata, e trova invece il fratello minore, sedicenne (come la cugina di Alain Delon), interpretato da Jacques Perrin, cioè un Trintignant nobilitato (un conte?), ancora più garbato nei modi, più puro, e vergine. La Cardinale, invece, è una cantante di confine, tra avanspettacolo e prostituzione. Tutti, prima o poi, inspiegabilmente, le allungano un po' di soldi per levarsela di torno; e lei, quando vede quelle buste, spera sempre che all'interno ci sia una lettera d'amore. Il disastro con il signorino che tenta di rimediare, magari con pretesto cattolico, alla porcheria del fratello, è già alle porte. Perrin, infatti, è troppo inesperto per non farsi travolgere dalla sfortuna della Cardinale. E comincia, di fatto, a mantenerla. La sfumatura psicologica, l'accurata tessitura dei rapporti è senz'altro il punto di forza di questo cinema dell'individuo, dei sentimenti, di un'intimità rivelata, bisogna riconoscerlo, con finezza. Nell'ordine di preferenza: 1°) Estate violenta (ma il titolo è bruttissimo) 2°) La ragazza con la valigia 3°) La prima notte di quiete

sabato 22 ottobre 2016

AVE, CESARE! di J. e E. Coen

Parodia ispirata del conformismo americano, con miserie nascoste sotto il tappeto e facciata hollywoodiana: il cinema è protagonista tanto nell'ambientazione (studios, set miliardari, attori viziati) quanto nei contenuti, con una realtà irrimediabilmente distorta dalle proprie finzioni, e con la missione morale yankee, una specie di grandioso imperativo categorico della lealtà al capitalismo e del destino cristiano, che rappresentano il pilastro della propaganda anticomunista. Tutto è ridicolizzato, a cominciare dall'eroe, Eddie Mannix, che dirige una major e si occupa di tenere pulita la reputazione delle star. Questo sporco lavoro lo porta spessissimo lontano dalla famiglia, e lo induce a disattendere la promessa fatta alla moglie: smettere di fumare. Eddie scrocca di continuo sigarette e va a confessarsi con frequenza compulsiva. Il suo dramma interiore, lacerato da puerili bugie e omissioni, è uno degli elementi più divertenti dell'opera. Il nemico, in piena guerra fredda e a ridosso della caccia alle streghe, è costituito da un manipolo di sceneggiatori risentiti, guidati dall'ideologo prof. Marcuse. Costoro ordiranno il rapimento del divo Withlock (George Clooney) provocando l'interruzione delle riprese di un kolossal sulla vita di Gesù. Il covo eversivo è una casa a picco sull'oceano in cui si effettuerà il solito mellifluo, sovietico, lavaggio del cervello, senza che il divo sprovveduto opponga la minima resistenza. E' in questo frangente che si delinea al meglio la funzione redentiva dell'eroe Mannix, che i fratelli Coen inquadrano nella grottesca comicità (ma, implicitamente, nella violenza ottusa) della Reazione.

venerdì 14 ottobre 2016

Il tempo della gentilezza

Il tempo della gentilezza non è finito. Proclamare un nuovo interventismo, non tanto rivolto alla politica, quanto all'imbecillità della cultura, sarebbe uno dei soliti buoni propositi da aspirante "guerriero". Io assecondo una natura pacifica, anche una certa pazienza - un po' malevola, a dirla tutta. Non sono programmato per andare all'assalto; ma spero di avere il tempo per dimostrare che ho ragione, e che questi scolaretti, questi primi della classe, non sanno nulla della vita, nulla dell'umanità. Si dicono ammaliati dai poeti, dalla troia dagli occhi ferrigni, ma una "troia" non l'hanno mai guardata in faccia: erano impegnati con la tesi. Scrivono recensioni per sbandierare ai quattro venti la loro delicata sensibilità, e invece hanno solo una lista di opere (altrui) da depennare. Viaggiano, girano per mostre e festival senza imparare nulla. Si sforzano in lungo e in largo, muovono leve a destra e a manca. Tutto però, invariabilmente, resta fermo.

giovedì 19 maggio 2016

IL GIARDINO DI CEMENTO di Ian McEwan

Il senso del limite (cultura e civilizzazione) è connesso a un'abitudine di regole e codici morali condivisi, più o meno avvertito nella misura in cui si partecipa alla vita sociale. In un contesto di desolazione suburbana, fra rioni demoliti in attesa che vengano su nuovi grattacieli, quattro fratelli restano soli: prima muore il padre, per un infarto; poi la madre, che passa dal lutto a una malattia di giornate a letto e interminabili dormite con i farmaci sul comodino. Questa agonia è una sorta di preparazione allo sbando completo che vivranno i figli: Julie, diciassette anni e naturale mamma vicaria; l'io-narrante Jack, torvo quindicenne devastato dall'acne; Sue, tredicenne cavia introversa della curiosità sessuale dei primi due; Tom, il più piccolo, già vittima di bullismo a scuola, che alterna il desiderio di travestirsi da ragazza a quello di tornare neonato accudito. L'estinzione dell'autorità è campo libero: la macabra euforia per una simile conquista, inattesa, altera il sentimento dei ragazzi persino rispetto alla scomparsa dei genitori: la gerarchia tra fratelli è più blanda, talvolta si dissolve in aperta complicità, ambigue effusioni, "esperimenti" e sfoghi - come quando mamma e papà si assentavano e loro potevano giocare senza più regole. La fine del controllo è l'inizio di un graduale regresso, imbarbarimento che trascura l'igiene della casa, anarchia alimentare, nottambulismo. Il decesso della madre, peraltro, coincide con lo scoppio di un'estate impietosa e con la chiusure della scuole. L'incertezza, il timore che i servizi sociali intervengano, e che la casa finisca rasa al suolo, come inghiottita dalle macerie tutt'intorno, induce i ragazzi a nascondere il cadavere materno in un baule e a riempirlo di cemento. Tutto il romanzo verte sui simbolismi psicologici - Jack sogna spesso una scatola di cui non osa verificare il contenuto; e gli impulsi a trasgredire la legge, già presenti quanto il padre era in vita, dilagano. Julie e Sue assecondano Tom, ne fanno una grottesca bambola con tanto di parrucca; Jack è ogni giorno più geloso della sorella maggiore che, in modo più o meno esplicito, sembra incoraggiare quel desiderio. L'isolamento degenera in una autarchia famigliare, in un volontario ritiro che soffoca angosciato e, al tempo stesso, si crogiola nella propria emarginazione. Lo sviluppo dell'adolescenza di Jack, tra brufoli e cattivi odori, va in parallelo con la putrefazione che spacca il cemento, apre una fessura nel sepolcro. Questo sogno maleodorante, percorso da ostilità, tensioni, erotismo, culmina nell'incesto, che segna anche il brutale ritorno alla realtà.

martedì 17 maggio 2016

ALTROVE, FORSE di Amos Oz

Il romanzo ci porta dentro un kibbutz di confine presentando, per quasi duecento pagine, l'intera comunità: un caso di socialismo ebraico applicato, con episodi quotidiani, rituali, tresche, invidie più o meno latenti, e lo spauracchio arabo di là dei monti. L'insieme è un po' noioso, alla stregua del menage di pettegolezzi che descrive: l'arguzia di Oz, e la sua finezza analitica, innegabile ma discontinua, risultano insufficienti a reggere. Si va avanti per il credito letterario dell'autore, e in parte si è ripagati dall'entrata in scena di un "cattivo" che mette in subbuglio l'ordinaria piattezza della vicenda. Fin lì, la visione critica, ironica a tratti, dei principi fondativi, la fisiologica incongruenza degli ebrei di buona volontà, rischiava di far naufragare l'opera in un affresco di scontato realismo: il poeta Ruben che, abbandonato dalla moglie, infine cede a una relazione con una donna sposata; il marito di costei, Ezra, un camionista, che sembra accettarne l'infedeltà finché non seduce (o è sedotto) dalla figlia sedicenne di Ruben, e addirittura la ingravida. Lo scandalo, i risvolti di una vendetta che mina un intero sistema morale, rimanda di continuo alla moglie del poeta fuggita in Germania (cioè a casa degli assassini), e al destino ebraico inteso come sconfitta passiva, resa incondizionata, tanto alle "corna" quanto, a un livello antropologico e storico, alla ghettizzazione e all'Olocausto. Il cattivo, Siegfried, fratello di Ezra, giunto anch'egli dalla Germania, introduce l'elemento della strategia, della manovra senza scrupoli (desidera la ragazza, col pretesto di ricondurla dalla madre); una riaffermazione della volontà che spesso coincide con la smania distruttiva, col gusto di corrompere una purezza idealizzata (la purezza, di fatto, non esiste; a Mezudat Ram nemmeno i bambini sono puri). Oz, in questo kibbutz, propone un mondo che tende al miglioramento, con incidenti di percorso, fallimenti, derive - ma che, in linea di massima, progredisce. La chiave è l'amore, in senso profano, un respiro sentimentale che prende fiato dal perdono, e dalla libertà che implica perdonare. Il segno di questa scelta esprime, quindi, una certa fiducia nell'uomo; ma è ineluttabile che il risultato, una famiglia allargatissima, tradisca qualcosa a metà fra l'inverosimile e il consolatorio. La ragazza incinta si sposa col coetaneo Rami, innamorato fin dall'inizio; l'anziano Ezra si riavvicina alla moglie, la quale accoglie la giovanissima rivale in quanto figlia di Ruben (morto). Ogni personaggio, purgato da una sofferenza specifica (un lutto, una delusione) riconsidera le proprie convinzioni, le smussa pur di sopravvivere. Ma è una sopravvivenza che somiglia troppo all'accomodamento e ricalca i dettami di un lieto fine edificante. Va da sé, in Israele c'è bisogno anzitutto di questo - oggi non meno di quarant'anni fa, quando il libro è stato pubblicato.

giovedì 12 maggio 2016

LO STRANIERO di Luchino Visconti (1967)

Un processo penale che diventa morale in piena regola. Il Meursault di Camus, appresa la notizia della morte di sua madre, si presenta (all'ospizio e allo spettatore) senza tradire alcun sentimento di lutto. Rifiuta di vedere la salma, fuma in compagnia di un anziano inserviente, beve una ciotola di caffellatte, si appisola durante la veglia funebre. Esprime, più che altro, una vaga fiacchezza, una noia esasperata dalla calura algerina: Mastroianni suda e inzuppa camicia e giacca, si passa di continuo un fazzoletto sul collo, sbuffa e segue il corteo sotto il sole a picco, lungo sterrati polverosi, come a sbrigare una formalità. Visconti in questo frangente è abile a costruire un'atmosfera levantina, di vapore acqueo, smog, folla, insetti; a ogni passo si ode un crepitio, quasi a rimarcare l'erosione, il lento disfacimento della scena umana (la partecipazione, i sentimenti). Il senso di oppressione fisica, il continuo malessere a cui si reagisce con uno stordimento di sigarette, di vino bevuto un po' controvoglia, di cibi ingurgitati con astratta voracità, si placa nell'erotismo serale: una collega di ufficio abbordata in spiaggia, portata al cinema, baciata, condotta fino al letto di Meursault - dove spira, dalla finestra lasciata aperta, una leggera brezza pacificante, che giova ai corpi eccitati. Il gusto dell'esistenza è in questo respiro umorale, fra nausea e gemito, a ridosso di un confine labile, ambiguo, in cui dolore e piacere sembrano talvolta mescolarsi. In una simile accettazione del destino, passiva in apparenza, tutta fondata sulla percezione della materia, sulla deperibilità dell'organico, si scivola a poco a poco nell'indifferenza. Raymond, un vicino di casa, confida a Meursault i suoi guai con un arabo, fratello di una "fidanzata" che ha malmenato. Mastroianni si presta a scrivere una lettera di insulti che, tuttavia, susciti nella donna dei rimpianti, una nostalgia utile allo scopo dell'amico: attirala un'ultima volta, possederla, e picchiarla. La trappola funziona, c'è una rissa, a cui seguono nuovi pedinamenti e atteggiamenti intimidatori da parte dell'arabo. Sul finire di una giornata al mare, dopo una prima colluttazione in cui Raymond viene accoltellato, Meursault si ritrova solo e obnubilato sulla battigia. Ha con sé la pistola; un colpo di sole, un balenio sulla lama del coltello: spara, uccide il giovane arabo prima d'esserne aggredito. Quindi, è colpevole? I colloqui col giudice istruttore e il dibattimento in aula determinano il punto di vista filosofico di Meursault, cioè la morte come unico orizzonte in cui i valori spirituali, cattolici in primis, si appiattiscono nella menzogna del conformismo morale. La sola verità sono i sensi, e l'irripetibile esperienza dello stare al mondo; così, se ci fosse una vita dopo la morte, Meursault vorrebbe poter ricordare l'amante, la brezza sui loro amplessi, e la luce delle stelle. L'assassinio è stato una disgrazia, la sciocchezza di un istante - e non può esserci pentimento. Il forcing della Giustizia umana lo pretende ancor di più per la madre lasciata morire nell'ospizio; si reclama il rimorso, la Colpa che l'imputato non prova, perché - ormai - non avevano più niente da dirsi. Giudicato colpevole dagli uomini, indifferente al perdono di Dio, nella piena consapevolezza che morire a trent'anni o a sessanta, non cambia granché, sarà impiccato. Lo sguardo finale di Mastroianni è un addio perfetto, come la sua voce che legge Camus, e l'intera prova attoriale, che regge (insieme al romanzo) un'opera discontinua, con una regia che troppo spesso ricorre allo zoom e alla irrequietezza delle macchiette.

mercoledì 11 maggio 2016

Carta forbice sasso (dal catalogo Asterios)

IL DESERTO ROSSO di Michelangelo Antonioni

Infine, il disagio intacca il matrimonio, e lo corrode; perfino la maternità si inceppa, giacché la natura stessa, incalzata dall'industria (simbolo primario del Capitalismo), sembra avviarsi a una sconfitta epocale e irrimediabile - una sorta di collasso tra fumanti ciminiere e sversamenti in mare. Giuliana (Monica Vitti), moglie di un manager con la erre moscia, vive nei pressi di un gigantesco impianto: finestre sui piazzali con gli operai in sciopero; sui gasdotti, sui maleodoranti pantani di un disastro ambientale già compiuto; finestre sulle petroliere che arrivano e che ripartono. Tutto, in questa crisi esistenziale, è sguardo, contemplazione sfocata di una realtà opprimente. Mai una gioia, nemmeno per suo figlio, che viene su attorniato da balocchi tecnologici, robot, giroscopi, vetrini e sostanze coloranti da piccolo chimico. Giuliana, per inciso, ha già tentato il suicidio; ma suo marito, dopo averla presentata all'amico Corrado Zeller (Richard Harris), riferisce di un incidente stradale e di un trauma che, tuttora, impedisce alla donna di "ingranare". Questo linguaggio meccanico, unito al perenne compiacimento da alto dirigente pieno di soldi, incurante di qualsiasi elemento extra-aziendale, è sintomo di un'impotenza sentimentale assoluta, e di una vita di coppia morta e sepolta negli acquitrini industriali di Ravenna. Zeller, al contrario, sembra incarnare il borghese illuminato, in grado di filosofare su un'identità politica connessa alla moralità (avere la coscienza in pace); in fondo, però, è inquieto anche lui, e in perenne fuga dai luoghi in cui potrebbe mettere radici: non a caso, sta reclutando operai per un progetto in Patagonia, il suo ennesimo viaggio solo-andata. La completa mancanza di senso di una modernità pianificata in ogni dettaglio, nei ritmi serrati della produzione, negli spazi ottimizzati che fruttano scarnificando il paesaggio, si manifesta nell'astruso progetto di Giuliana: aprire un negozio senza nemmeno sapere cosa vendere. Comincia da un locale, dalla scelta della pittura per le pareti. Il primo incontro con Zeller avviene fra test di colore, strisce sull'intonaco nudo, in una stanza per il resto disadorna. E', sì, un inizio - ma di che cosa? Quando escono in strada, in un quartiere spopolato e monocromo, il vento spinge ai loro piedi un foglio di giornale. Giuliana si stupisce, perché "è di oggi". L'intercambiabilità dei giorni, dei momenti, persino degli amori, sbiadisce il mondo. L'attrazione fra i due segue una legge di complementarietà: lei guarda e non capisce, avverte un totale rifiuto (per il brutto che dilaga, per i rumori assordanti della fabbrica, per gli amici che frequenta suo marito), e prova a esprimersi, anche per mezzo della nevrosi; lui ascolta e sembra capire, tenta di elaborare i mutamenti e gli eccessi della realtà, deciso a integrarli in un quadro più umano. Spesso si ritrovano a passeggiare in uno scenario dominato dall'inquinamento: paludi, idroscali, spoglie distese, filari di enormi antenne a perdita d'occhio. L'esperienza visiva di "Deserto rosso" è in questa prodigiosa estetica della desolazione, nelle suggestioni poetiche che se ne ricavano, e nei dialoghi, nelle interferenze - un disturbo metafisico in cui tutti i personaggi si muovono più o meno consapevoli della catastrofe (razionale?).

lunedì 9 maggio 2016

L'ECLISSE di Michelangelo Antonioni

"L'eclisse" comincia dove finisce "La notte", con una donna e il suo non ti amo più: è passata da poco l'alba a Roma, e i due personaggi si lasciano dopo un confronto interminabile e dilatato, quasi venendo fuori da un punto morto di frasi sommesse, inconcluse, alternate a silenzi snervanti coperti dai giri di un ventilatore. C'è una profonda stanchezza in questa separazione, un esaurimento degli argomenti e dell'energia necessaria a formularli. I due avrebbero dovuto sposarsi di lì a poco, ma tutto va all'aria senza drammi, con relativa compostezza. Per Vittoria, in particolare, è un sollievo. Vorrebbe parlarne con la madre, assidua frequentatrice della Borsa, ma in quella bolgia delirante il suo senso di estraneità e di emarginazione si esaspera, perciò omette di annunciarle il fidanzamento appena troncato. Nella stessa circostanza incontra Piero (Alain Delon), un broker ipercinetico che mangia panini al volo e fuma in continuazione. L'opera si sviluppa fra questi due poli, gli spazi vuoti dell'EUR, con cantieri edili, fermate d'autobus nella tetra staticità residenziale, e il chiasso del centro storico di Roma, fra il mercato ortofrutticolo e quello delle azioni. Vittoria (nome beffardo) non prova alcun interesse per il denaro, è una natura contemplativa, astratta, vagheggia felicità indefinite, ma cova una sorta di disincanto; resta affascinata dalla primitività africana, o perlomeno da come gliene riferisce l'amica keniota di una sua vicina di casa. Questa nostalgia del tribale si evinceva anche ne "La notte", con la scena al night (il numero era affidato a due africani); e rimanda a un saldo negativo della civiltà tecnologica. In tutti i momenti notturni, la Vitti ha un bagliore selenico; e il contrasto, quando lei appare in un travestimento negroide con collare dorato, e si abbandona alla danza, è fortissimo. La relazione con Delon patisce una resistenza; buona parte dell'opera è incentrata su questo disorientamento, su un'intermittenza nevrotica del desiderio che sembra pronto a darsi, ma poi si nega. L'amore nasce un po' forzato nell'appartamento museale di Piero, fra arredi preziosi e ritratti d'antenati che, osservando la scena, conferiscono all'atto qualcosa a metà fra colpa e irrilevanza. Il senso metafisico dell'esistenza, inserita, "gettata" nella Storia, è dato dalla stessa Vitti quando si affaccia su una Roma che meriggia eterna e - appunto - alienante (alienazione è, senza dubbio e non a torto, la parola più spesso associata al cinema di Michelangelo Antonioni): parimenti alla tecnologia, c'è un peso, un'eredità umanistica che grava, che schiaccia l'individuo e lo azzera. Il broker ha trovato una sua dimensione nella Borsa; con semplicità (anche con povertà, in fondo) prova a suggerire questa medesima strada alla Vitti: all'inizio, spiega, è difficile, ma poi ci si appassiona. Lei, con brutalità, gli domanda: "Ci si appassiona a cosa?". Soldi, carriera e status symbol sottraggono, deprivano nell'esatta misura in cui sembrano aggiungere qualcosa. L'amore stesso, quindi, che senza alcuna spiegazione logica si era originato, senza una spiegazione deperisce, muore. Proprio la modernità, forse, con i suoi artifici, lo eclissa. La vita continua all'EUR, i luoghi degli amanti sopravvivono senza di loro: l'epilogo accenna a questa sparizione, con la gente che va al lavoro, che torna a casa, e i simboli sono ancora lì, un bastoncino che galleggia in un po' d'acqua stagnante, una donna che somiglia alla Vitti, ma non è lei. Un'altra giornata volge al termine, i fanali si accendono sulla strada.

giovedì 5 maggio 2016

LA NOTTE di M. Antonioni

Il Boom economico è osservato nei vuoti che lascia: la solitudine in coppia, nel traffico congestionato di Milano; o Jeanne Moreau senza meta per campi di periferia in cui si lanciano razzi artigianali. Aree urbane inquadrate dall'alto, panoramiche di sterrati, con ragazzi che si sfogano in vorticosi combattimenti. "La notte" è una pellicola storica, nel senso che rappresenta l'opera di scavo, e di svuotamento, esercitata dal Progresso, con l'individuo ridotto all'evanescenza e a un'inerzia spossata: l'uomo ha smarrito identità, certezze, perfino sentimenti. Sopravvive in una superficie che muta, contraddittoria, fra caseggiati, ruderi postbellici, grattacieli e ville fuori porta. Partecipa, lavora, conquista posizioni, si afferma - ma al tempo stesso fallisce. Il caso di Guido Pontani, il protagonista, è emblematico: scrittore sulla via della celebrità, si presta alla pantomima degli eventi culturali, un mesto trionfo mondano che non riesce a condividere nemmeno con sua moglie. Lei, annoiata, abbandona l'incontro alla Bompiani e finisce a Sesto San Giovanni. Poi telefona al marito per farsi portare a casa: grande appartamento borghese in cui sembrano disporsi, in una smorta geometria, i cimeli di un'avanguardia artistica residuale, costosa e fredda, che arreda senza comunicare. In questo tempio monotono dell'intellettualità e dell'agio inutile, i coniugi non hanno più nulla da dirsi. Quindi escono giusto per non stare in casa - prima un night con numeri da circo erotico, poi la Dolce Vita presso un industriale miliardario con piscina, cavalli, consorte logorroica radical-chic e figlia perspicace e disincantata (Monica Vitti), una ventiduenne che legge "I sonnambuli". Guido resta infatuato dalla ragazza, ma come sospeso fra questa apparizione di vitalità misteriosa, e di vizio, e la passività angosciata di sua moglie, che si aggira fra gli invitati, persa, il pensiero rivolto all'amico quasi-amante che sta morendo al settimo piano di un ospedale. Non c'è gioia nel divertimento; il benessere stesso rivela un guasto intrinseco che si trasmette e rovina tutto. Le ampie vetrate della villa riflettono una festa opaca, che sembra implodere nei suoi intrattenimenti chiassosi e demenziali. Una delle suggestioni visive più potenti è proprio questo sfocato sdoppiamento scortato dalla cinepresa, in perpetuo movimento: lente carrellate di simulacri, uno schermo dentro lo schermo degli "alienati", mentre fuori si abbatte l'acquazzone. Se Mastroianni è l'elemento rappresentativo di una crisi epocale, sempre sul piede dell'adesione, del rassegnato adeguamento; la Moreau, stupenda, è il femminino che intuisce, intravede, e prova a decidere: sarà lei a dichiarare la fine dell'amore. Anche se questo non basta più a scegliere, a farsi padroni del proprio destino.

martedì 3 maggio 2016

Antichrist

Willem Dafoe, che in passato era stato Gesù, qui è uno psicoterapeuta di Seattle convinto di fare miracoli: rappresenta tutti i valori fermi della razionalità onnipotente e della psicanalisi come scienza. Ha sposato una donna brutta e voluttuosa (il femminino ancestrale a sfondo ninfomane); e quasi a punire un erotismo movimentatissimo, il loro bambino cade dalla finestra mentre stanno facendo l'amore (prologo al rallentatore girato in bianco e nero, con il "Lascia ch'io pianga" di Handel). La tragedia determina nella Gainsbourg un'elaborazione del lutto "atipica". Dafoe non esita a licenziare il collega incapace ("atipico" implica un margine di inspiegabilità) e riporta a casa sua moglie dopo un mese di ospedale senza miglioramenti; insomma, la prende in cura nonostante in qualità di marito non potrebbe, né dovrebbe. Il menage d'appartamento, dove il senso di colpa imperversa, è terrifico: insonnie devastanti, attacchi di panico e fughe carponi in gabinetto, colluttazioni penose, grida, valanghe d'angoscia a tratti arginate da furiosi coiti che non servono alla causa. Dafoe è un professionista esperto, il suo postulato è che la paura vada affrontata di petto. Disegna una piramide da riempire con le ossessioni di sua moglie: l'obbiettivo è risalire fino al vertice. Cosa la spaventa più di tutto? La foresta di Eden, dove i coniugi hanno una casetta di legno per ritirarsi in estate: la Gainsbourg l'ultima volta ci è stata da sola col figlio, per comporre una tesi sulle streghe messe al rogo dall'Inquisizione. La piramide, poco a poco, si struttura. Dafoe è certo di poter risolvere il caso. Sottopone sua moglie a una serie di esercizi, anche di respirazione. Quando arrivano nella foresta sono Adamo ed Eva in tenuta da trekking. Lei non riesce nemmeno a camminare, il terreno scotta. Lui è categorico: non è vero, non scotta; è una somatizzazione bella e buona. La Gainsbourg però leva gli scarponi e scopre la pianta dei piedi ustionata. Poi, sfinita, si risposa sull'erba, si addormenta. Lui intanto gironzola e s'imbatte in una cerva col cucciolo morto ancora attaccato. Dafoe, da buon illuminista, sorvola su questo simbolo e, non di meno, sui messaggi sinistri che Eden gli sussurra in continuazione. Anche la casetta di legno non si rivela un focolare sicuro. La notte il tetto spiovente è sferzato dalla caduta di migliaia di ghiande che reiterano all'infinito lo schianto del bambino. Il vento soffia tra gli alberi, una finestra si spalanca - e la Gainsbourg non ha dubbi: è il respiro di Satana. Ma suo marito non batte ciglio, insiste a programmare una terapia razionalistica, step by step. Dispone nel prato antistante due pietre, partenza e traguardo, e impone a sua moglie di compiere il percorso. La Gainsbourg, incoraggiata e scortata passo passo, riesce nell'impresa, senza bruciarsi. I due, felici, si abbracciano. Ma subito dopo, da una quercia, precipita un pulcino morto e già brulicante di formiche; e un'aquila nera, maestosa, si fionda per assicurarsi quel fortuito pasto. La Natura è maligna, e il bambino non smette di cadere dalla finestra. Dafoe tiene in tasca il referto dell'autopsia - sale nella mansarda e trova una serie di illustrazioni macabre sulle torture a cui venivano sottoposte le eretiche. C'è un nesso con la strana deformazione che hanno riscontrato nei piedi del bambino? Osserva con attenzione le foto scattate in estate (madre e figlio nella veranda). In tutte, il piccolo ha le scarpe invertite. Ora Dafoe, per la prima volta, avverte una certa inquietudine accanto alla moglie. Lei se ne accorge e gli pianta un paio di forbici nella schiena. Si accapigliano fino all'amplesso - lei d'improvviso si sottrae, e lo ferisce esplicitando - in termini freudiani - la nota invidia per il pene. Che eiacula sangue. Dafoe, svenuto, è un cristo pronto alla sua croce. La Gainsbourg gli buca una gamba con un trapano a manovella, poi gli fissa alla caviglia una mola, e getta via la chiave inglese. Questo non basta a fermare il razionalismo di suo marito, che trascinando l'arto zavorrato si infila in una tana. E' l'epilogo di una schizofrenia che ormai dilaga, con la donna anticristo prima a caccia del maschio, poi pentita (come ci si pente di un aborto). La ragione mascolina ha la meglio: Dafoe strangola la strega e la brucia in un rogo barocco. Il film si chiude con Adamo che scende per la foresta di Eden, mentre una folla che moltiplica Eva gli va incontro, lo accerchia. Il conflitto uomo-donna, esasperato in un horror depressivo (psichiatrico) elegantissimo e pieno di suggestioni filosofiche, è forse il capolavoro di Von Trier. Un'opera intollerabile che rivela tutta la poesia del male, la sua origine misteriosa affidata a un'ipotesi che ha lo sguardo, e la follia, di una donna.

giovedì 21 aprile 2016

Suicidarsi nella radura (CORREZIONE di T. Bernhard)

Già il luogo in cui Roithamer decide di suicidarsi, una radura, rievoca Heidegger e quell’improvviso diradamento nell’Essere che, in “Correzione”, è rovesciamento definitivo (un cappio, una corda legata a un albero). Il rapporto andrebbe approfondito: ci sono numerose testimonianze dell’avversione di Bernhard per questo “ridicolo filisteo nazionalsocialista coi pantaloni alla zuava” (così in “Antichi maestri”), ma resta più di un sospetto: anche la ripetitività della prosa, la cadenza ipnotica della narrazione, e in fondo tutti gli ambienti spogli idonei al pensiero (la soffitta di Hoeller, per esempio, e lo stesso Cono, irraggiungibile, occultato al centro della foresta di Kobernausser) rimandano a quella sorta di mistica ontologica che Heidegger praticava nella sua baita, in piena Foresta Nera. La disciplina monastica dell’esercizio intellettuale, il progressivo ritiro dalla vita sociale, la strenua difesa della propria natura o “personalità”, con radicale dispiegamento di insofferenze e ribellioni al quotidiano più gretto, assumono in Bernhard il carattere dell’intransigenza assoluta, e sfumano in una maniacalità di rituali via via più precisi, quasi mortali. Tutto è professione di purezza, un lavorio in cui si radunano con tenacia ossessiva le risorse vitali dell’individuo: idee, progetti, audaci realizzazioni. L’esistenza è intesa come un’opera che pretende il massimo sforzo, anche metodologico. Senza di questo, è nulla. Ma anche il compimento dell’esistenza si rivela, al culmine, Nulla. Roithamer concepisce il Cono, edificio di cui non esistono precedenti in Europa, per la felicità di sua sorella; tuttavia – di fatto – il completamento dell’opera implicherà la morte della creatura da lui più amata, e la fine della sua vita medesima (come scienziato, come uomo). Questo destino di annientamento è avvertito in ogni singolo istante, ridimensiona qualsiasi esperienza, prima materiale, poi spirituale – in una funesta escalation in cui tutto è connesso (all’infanzia, al susseguirsi di fallimenti emotivi e sentimentali). L’effetto comico raggiunto in diversi passaggi scaturisce, quindi, da fondamenta tragiche: la colossale fossa comune della Storia occidentale; la storia, verrebbe da pensare, della coscienza umana.

sabato 16 aprile 2016

AMOUR di M. Haneke

Un'opera austera (un po' lugubre) che racconta l'amore fra due anziani professori: lei colpita da ictus, due attacchi che la annientano; lui, già malconcio, si fa carico di tutto col solo aiuto di un'infermiera specializzata per tre volte a settimana. La condivisione di un'intera vita si estende a questo calvario affrontato con dignitosa rassegnazione o, in una parola, con naturalezza. Il pudore estremo di Haneke (regia statica, dialoghi ridotti all'osso), e una generale compostezza di abitudini nella coppia rappresentata, con rituali casalinghi improntati al decoro e un'intimità di gentilezze che sopravvivono, aggira il penoso spettacolo dell'agonia. Solo ogni tanto, i tempi morti della malattia, dettagli d'ospedalizzazione, balbettii angoscianti, pappe somministrate con snervante fatica, cucchiaiata dopo cucchiaiata. Quello imboccato è un vicolo cieco, non ci si può aspettare lieto fine. Rispetto ai numerosi precedenti di "cinema terminale", colpisce l'ambientazione alto borghese, l'enorme appartamento parigino in un palazzo gentilizio, boiserie e scaffalature stipate di libri, tappeti, e il pianoforte a coda, il filetto a pranzo, i vini; la servitù che sfacchina mentre i padroni leggono trattati di musicologia. Questi ricchi, tuttavia, non piangono. La morte si insinua fra i mobili d'antiquariato, accolta senza drammi né tracolli sentimentali. Tutto è azione terapeutica, impegno fattivo, pragmatismo borghese anche nell'assistenza, cambi di pannoloni compresi. Si propone una versione totalizzante dell'empatia coniugale, una poetica del gesto, del riguardo, dell'ascolto incondizionato. Così una seconda infermiera viene licenziata in tronco perché, nonostante faccia quel che c'è da fare, sbaglia i modi. Gli sposi, alla fine, restano soli - perché il loro amore, in definitiva, è un destino in cui abbracciano, senza calcoli né tornaconto, le rispettive solitudini.

giovedì 14 aprile 2016

Un bacio sulla fronte (A COLPI D'ASCIA di T. Bernhard)

(Anche) “A colpi d’ascia” è una stupefacente liquidazione del mestiere romanzesco e, in particolare, della composizione accademica: completo disinteresse per l’allestimento narrativo e per la strategie di suspense. Tutto in Bernhard è scrittura, decostruzione di una ipocrisia connaturata nell’uomo e, anzitutto, nell’intellettuale. La scena del romanzo è psichica, con sollecitazioni esterne perlopiù luttuose (qui il suicidio di un’amica e, come accade sovente, un suicidio “annunciato”) o ridotte a spunto per raccontare, tra insofferenza e plateale esaurimento, grette abitudini sociali, una sorta di nevrosi austriaca e, nella fattispecie, viennese (la “cena artistica” a casa dei coniugi Auersberger). La scrittura si affida a una spirale di elucubrazioni e instancabili rimuginii, senza mai scivolare in flusso di coscienza – perché non si tratta di riprodurre soliloqui, come farebbe un guitto degli stili letterari, ma di abbandonarsi al rinvangare ossessivo del pensiero. Così, a ogni pagina, ritornano parole emblematiche, tipo “disgusto”, “rivoltante”, “catastrofico”, “atroce”, “nauseante”; o intere frasi in un concatenamento della più profonda sfiducia nel genere umano, a cominciare dalle sue istituzioni (lo Stato ridicolo, il disastroso Burgtheater, etc. ). Il giudizio impietoso sulla meschinità dell’Uomo, tra vittime e carnefici che si scambiano il ruolo, si abbatte in primis sui sentimenti. L’amore, ineluttabilmente, diventa odio; l’amicizia feroce disprezzo: Bernhard stesso patisce questo deterioramento degli affetti: negli anni Cinquanta, spiantato, adorava gli Auersberger, frequentava con assiduità la loro casa, sopraffatto dagli agi borghesi, da un’aristocrazia dello spirito alla quale, giovane e inesperto, desiderava innalzarsi. Trent’anni dopo, la biblioteca di famiglia, gli arredi d’epoca, i cibi prelibati, la mondanità di cui aveva profittato, gli appaiono un adescamento, una menzogna. I suoi amici l’avevano, sì, riconosciuto come scrittore e introdotto nella società degli artisti, ma non si era trattato di “mecenatismo”; lui si era inserito in una storia di grandiosa ospitalità che riempiva un vuoto coniugale dilagante, aveva interpretato la parte del giullare per una coppia letteralmente devastata dalla noia. Tutti i rapporti, di fatto, si giocano su questa reciproca economia, con un debitore che, presto o tardi, si sente in credito. La posta in palio è l’identità, e il “valore” che ciascuno sente di rappresentare. Perciò, alla fine, non c’è pietà né perdono – nonostante ci si congedi, per sempre, con un bacio sulla fronte.

sabato 9 aprile 2016

GELO di Thomas Bernhard

Si arranca un po’ a leggerlo, ma si va avanti - con passo rassegnato da corteo funebre. Ogni tanto c’è una grande pagina che si eleva dalla cenere – il nero stilistico, ali di un corvo, è così lucido da sfavillare: proprio sulla scorta di questi bianchi intensissimi val la pena di affrontare Bernhard. I suoi romanzi, d’altronde, mirano dritti all’obitorio della civiltà, andrebbero sfogliati sulla panchina di un cimitero, col sottofondo di un’upupa. Per apprezzarli bisogna trovarsi in sintonia con i requiem, avere un debole per tetri paesaggi al crepuscolo, subire il fascino della deteriorabilità, patire un macabro interesse per l’organico e per il destino di putrefazione che accomuna qualsiasi forma di vita. “Gelo”, quindi, è un romanzo rivolto anzitutto ai materialisti indefessi, agli atei risentiti che vorrebbero distruggere il mondo per vendetta, agli oncologi mancati che ripiegarono, chissà perché, sulla letteratura. Se la parola “speranza” rievoca subito il concetto di menzogna, e se si intende il suicidio come un atto di suprema lucidità, uno scrittore come Bernhard è davvero il massimo. Una sorta di evangelista del nichilismo secondo cui ogni Verità, di per sé, è un abisso di miserie, furti e sciacallaggio; un baratro di voracità cannibalesche, di slanci effimeri che subito ricadono in uno stato di abbrutimento ancora più violento. Non si salva nessuno da questo colossale mattatoio in cui ci si macella a vicenda. Il teatro è un borgo sperduto fra i monti, in una conca opprimente, semiassiderata e piena di carogne. Sepolti nella neve, residui bellici, ordigni che esplodendo mutilano i bambini; c’è anche un fiume in cui galleggiano carcasse di mucca, un bosco in cui si aggirano scuoiatori becchini e operai di una centrale elettrica in costruzione, una cupa umanità ingobbita, elucubrante, spinta dalla “lussuria” imbecille. Gli episodi sono una concatenazione di disgrazie d’alta montagna: l’incendio in cui muore una contadina, o un giovanotto nel fiore degli anni schiacciato dalla propria slitta; poi la contemplazione delle salme, e il funerale. In tutto questo, gli interminabili monologhi di Strauch, portavoce di una filosofia che nega il Senso e qualunque possibilità di evoluzione. Non gli si può dare torto; però, forse, la tira un po’ per le lunghe.

mercoledì 6 aprile 2016

Morire è necessario

Nelle soap di tutto il mondo c’è almeno una costante: nonostante il gran numero di professionisti impiegato per realizzarle, il risultato è (invariabilmente) ridicolo. L’alibi sentimentale crolla, con puntuale sistematicità, nella cupidigia sessuale, in una promiscuità spesso e volentieri incestuosa. Beautiful, a tal riguardo, è il paradigma. L’appartenenza alla famiglia degenera in focosi incroci a rischio genetico, che risolvono alla spiccia i crucci di Edipo e di Elettra. Si conoscono tutti, prima o poi, e nascono così dei mostri (Rick Forrester, per esempio). Resta l’incognita di come si possa mandare avanti un’azienda di quel livello (con sedi a New York, Parigi e Milano) occupandosi solo di organizzare cenette a lume di candela e matrimoni. Gli stessi avvocati a libro paga, negri muscolosi, non fanno altro che allenarsi in palestra e bere integratori. In Cento Vetrine c’è una maggiore attenzione per gli affari (e, si fa per dire, per la verosimiglianza). Nella sceneggiatura, infatti, compaiono parole tipo “holding” e “consiglio di amministrazione”. Il set mal illuminato, con modesti arredi acquistati da Conforama, talvolta ospita anziani in sovrappeso, sinistri settantenni con un piede nella fossa che esprimono, un po’ al ribasso, la rassegnazione degli azionisti. Ettore Ferri, il Presidente, è perfetto. Recita con una mano perennemente in tasca, è il Napoleone del management italiano. Lo si immagina senza sforzo in un balletto ispirato all’Amleto (ma in calzamaglia, quindi senza tasche, non renderebbe al meglio). Negli ultimi tempi, dalla Spagna, arrivano soap in costume di gran pregio. Il segreto e Una vita sono un’unica grande telenovela in cui riecheggiano i costrutti ampollosi dell’Ottocento. Ma l’impianto è minimal, con tradimenti consumati in un sottoscala, amanti che forse sono fratelli, madri a cui rubano i figli, preti innamorati (Uccelli di rovo), un po’ di stalking alla Werther e, ineluttabilmente, avvelenamenti con tempestivo reperimento di un antidoto. In tutti i casi si verifica, all’uopo, almeno una perdita della memoria: un utile espediente per fare di un cattivo un buono – o viceversa. L’improvviso vuoto mnemonico, magari a seguito di un trauma, e il relativo cambio di segno morale in uno dei protagonisti, movimenta la storia, che altrimenti si appiattirebbe nella mera eternità. Tutti noi, al cospetto di una soap, iniziamo a temere di non avere fine, e ci spaventiamo.

giovedì 24 marzo 2016

La Vénus à la fourrure

Il pretesto narrativo è l'audizione per una piece su "Venere in Pelliccia". C'è un teatro e due soli personaggi: Thomas, il regista snervato da un'intera giornata di prove, e l'ultima candidata al ruolo di Wanda. La Seigner, sontuosa, è divisa in una schizofrenia fra lo stereotipo dell'attrice sgallettata e il rigore della virago erudita, che polemizza col testo di Sacher-Masoch e col regista stesso. Sembra incarnare, di fatto, la Venere crudele del romanzo, e bastano poche battute per comprenderlo: dopo le schermaglie iniziali, col racconto del rocambolesco viaggio in metropolitana, e con voluti strafalcioni per fuorviare Thomas (il tipico intellettuale frustrato), la donna tira fuori una voce gelida e imperiosa - e il regista si ritrova così, suo malgrado, nei panni di Severin. Ma non era questo il suo inconscio desiderio? Nel film, il gioco notissimo della finzione si avvale (anche) di una certa magia sonora. Quando i due fingono di bere il caffè, si avverte in lontananza il tintinnio dei cucchiaini, il vibrare in mano della tazzina; quando mimano la stipula del contratto, si ode flebile il fruscio della carta. L'incanto della rappresentazione - tout court - è nella fluidità dei ruoli fra vita e Teatro, e delle identità personali che si riveleranno intercambiabili. Per Wanda, non a caso, il rapporto fra la Venere e Severin è ambivalente e, a ben guardare, il dominato (che induce all'accordo scritto, che implora abusi, castighi, umiliazioni) è il vero dominatore, che riduce la donna a una sorta di oggetto "strumentale": è la sofferenza fisica a rendere possibile l'eccitazione sessuale di Severin. Allo stesso tempo, nell'infatuazione di Wanda per il greco Papadopulos, si cela l'omosessualità latente dello schiavo, che ambisce a una sorta di virilità per interposta persona. La Seigner è una sprovveduta che banalizza Sacher-Masoch in un porno psicologico, o una baccante del femminismo pronta a fare a pezzi Dioniso?

martedì 22 marzo 2016

Sensi

Pellicola del 1986, risente (con relativa innocenza) della pacchianeria dell’epoca, anzitutto nei costumi e nelle acconciature femminili. Si apre con un postcoitum londinese, lei (una delle tante) che si alza per andare via - non prima di essersi stupita perché Gabriele Lavia non ride mai, e solo dopo aver addentato una mela verde; lui che, per tutta risposta, si accende una sigaretta. Questa (tabacco e venere) è la vera dorsale di un’opera in cui si fuma tantissimo. Non mancano grandi occhiali scuri da rockstar malinconica e un gusto letterario, quasi enigmistico, per la mezza frase: il killer solitario, condannato a morte dai suoi committenti. Gabriele Lavia, infatti, butta nella tazza del water un importante documento con una lista di nomi che, d’altronde, ha ben memorizzata. Poi chiama un taxi. Ma il tassista è un sicario, e lui gli spara a bruciapelo salendo in macchina. Si dirige all’aeroporto e s’imbarca per Roma, dove prenderà alloggio in un bordello tenuto da una giovane matrona che lo ama da sempre, ma che ha ormai rinunciato a pretenderlo per sé e, addirittura, gli serve le migliori professioniste a libro paga. Qui entra in scena Monica Guerritore, una donna ricchissima con la vocazione per lo sporco (si prostituisce per un bisogno che, se non è materiale, a rigor di logica è spirituale). Fanno l’amore, ma stavolta “è diverso”. Lei, dopo, va in bagno con una certa trepidazione. Gabriele Lavia sta fumando, però sente dei mugolii; di soppiatto (spento anzitempo il mozzicone) la raggiunge e la sorprende, in posa sul bordo della vasca, mentre si dà ancora piacere con sofferte contorsioni. Lui, fino a quel momento refrattario ai sentimenti, capitola. E lo mette subito in chiaro con la matrona innamorata/masochista: “Voglio rivederla”. Ne segue una liaison patinata con alcune scene bollenti a cui, in ogni caso, è stato messo il coperchio. C’è una certa estetizzazione del sesso – Gabriele Lavia, per esempio, accarezza il corpo della Guerritore con una pallottola che ha un’esplosività simbolica non da poco. Tuttavia, non mancano ambiguità. La incontra per caso, di notte, sul Lungotevere. Vorrebbe possederla lì stesso, tra i rifiuti della Roma di Craxi, ma lei sta aspettando il marito, un po’ come se fosse un cliente. Questi (il marito) arriva poco dopo: anziano, stempiato, bisunto, con un sovrappeso da Prima Repubblica. C’è un siparietto di complicità adultera (lei spiega d’aver conosciuto Gabriele Lavia da un antiquario); il marito cornuto consapevole sta al gioco, invita il Terzo Incomodo a cena e, in un ristorante con terrazza, tiene un lungo discorso minatorio sull’infedeltà, e sulla propria determinazione a uccidere chiunque tenti di soffiargli la moglie. Gabriele Lavia è un killer e non batte ciglio. Spiega di essere un eliminatore di topi, una sorta di ingegnere della derattizzazione urbana (fragorose risate sul crescendo di tensione psicologica). Il giorno dopo si ricomincia con un discreto numero di amplessi e sigarette. È un gioco pericolosissimo. La Guerritore cerca di sottrarsi, ma è tutta una trappola: scopriamo che è stata assoldata per eliminare Gabriele Lavia; e il falso marito è uno dei mandanti. Lei, infatti, lo riceve infilandosi le mutande dopo l’ennesimo convegno amoroso con l’amante condannato; e ostenta sicurezza: “Ce l’ho in pugno”. Sì, il traditore è ai suoi piedi; ma anche la Guerritore comincia a vacillare. È tempo di farsi consegnare la lista coi nomi (non sanno ancora che è stato fatta a pezzi e buttata in un water di Londra), e di farlo fuori. L’amore, tuttavia, si sta insinuando, poco a poco, in questa relazione morbosa fondata sull’inganno. Gabriele Lavia sa di avere i giorni contati, lascia il bordello per non mettere a rischio la vita della matrona sinceramente preoccupata per lui (Gabry la definisce, con affetto, “la mia puttana preferita”), e si rifugia in un appartamento con una bizzarra carta da parati in cui sono raffigurate enormi pistole. Proprio qui si verifica un rapporto sessuale metafisico, con le ombre di Lavia e della Guerritore che si compenetrano sullo sfondo delle armi stampate. Nelle varie fasi di questa coreografia dell’umbratile, lascia un po’ perplessi la mancanza, fra le sagome danzanti, di un segmento che le unisca, e che renderebbe plausibile questo ingranaggio anatomico. È, insomma, un amore evirato, platonico in senso eminente (di ombre, cioè, sullo schermo della caverna-arsenale). I due protagonisti, disperati, sembrano orientati a condividere una sorte infausta. Ma Gabriele Lavia non può permetterlo: cerca di farsi odiare, diventa sarcastico, schiaffeggia senza motivo la Guerritore, poi si siede al pianoforte e suona in un improvviso slancio di romanticismo (alla Goethe). Ma non è un buon Werther, ci ricasca, porta fuori la Guerritore, vanno insieme a cavallo e progettano la fuga in Brasile (in aereo). Lui perde di lucidità: “Forse si dimenticheranno di me”. Lei va in un’agenzia di viaggi e compra i biglietti per Rio de Janeiro. Il falso marito la bracca, apre la borsetta e dà sfogo a sospetti ormai più che legittimi. La Guerritore però nega tutto, sostiene di dover assecondare Gabriele Lavia nei suoi deliqui da luna di miele. Ma l’uomo del Pentapartito, ora insieme a un sottosegretario volgare, le comunica la necessità di procedere con l’omicidio – un ordine che, per ragioni un po’ oscure, si è rimandato fin troppo (già il tassista londinese non sembrava così disposto a temporeggiare). Ne consegue l’ultimo appuntamento fra Monica e Gabriele: ecco, squillerà il telefono, e lei dovrà sparare al suo amore; poi accenderà e spengerà la luce tre volte: un segnale per i due uomini della Prima Repubblica che saliranno nell’appartamento e predisporranno lo smaltimento del cadavere. Colpo di scena finale. Ho visto il film in piena insonnia: non garantisco sulla fedeltà della “sinossi”.

mercoledì 16 marzo 2016

IL BENZINAIO - da MARMAGLIA (inedito, 2008)

Da Mura non c’è mai fretta, impera la flemma; il lavoro cheto e felicissimo prosegue anche quando due colonne di automobili alle pompe hanno già spento il motore, oramai arrese, senza che NULLA ancora sia avvenuto, in termini di rifornimento. Qui si vendono carburanti che sono liquori puri, sciroppi preziosi: Mura e suo figlio Isacco li distribuiscono lenti, lentissimi, col passo dei monaci all’imbrunire o all’alba, quando si recano preganti sottovoce all’orto. In fila da Mura si verifica appunto questa sospensione, di vaga atmosfera tibetana, tempo dilatato che si annulla nei loro gesti immutabili, nei loro sguardi insensibili a qualsiasi premura e supplica di celerità. Ma non può esserci alcun dubbio confessionale: ogni mattina, a musicare questa pace così statica, da una Fiat Regata parcheggiata vicino ai pozzi, spalancati gli sportelli, si levano i canti gregoriani di una messa, che volano in alto dall’autoradio tabernacolo: Mura padre (o Padre Mura che dir si voglia) è assai religioso, si definisce un cattolico ipercritico e ci siamo spesso affrontati in dispute teologiche, condizionate senz’altro, nella affabile (relativa) brevità, limitate da quel senso "iper" di cui egli tanto si vanta, ma che non gli impedisce i deliri mariani dell’invasato, la cristologia retorica di un’enfasi che, a mio avviso, ambisce a crocifiggere ancora. Mi è stato riferito che, da giovane, Mura fu criminale incallito.

lunedì 14 marzo 2016

da MARMAGLIA (2008)

Pinuccia è una prostituta automunita, lavora in piazza; non è una tossica succhiata ridotta pelle-ossa, bensì una donna in netto sovrappeso, tozza, ancor più schiacciata verso il basso da chignon di stoppia e orecchini a pendaglio, a cerchione-pattana. Guida una fiat blu-sbiadito dalla carrozzeria erosa, parcheggia in seconda fila e bighellona poi, a piedi, tra la feccia, subito uniformata a quell’ambiente e in fiduciosa attesa di avance – peripatetica. Qui, nei pressi della stazione ferroviaria e col porto incombente che esala il respiri degli ultimi, la chiassosa marmaglia capeggiata da Walter s’intrattiene, perenne: alcolizzati, pusher, amici consumatori, sbandati, tossici dall’attività poliedrica. Pinuccia è l’unica che eserciti il meretricio puro, sebbene da geriatra, da androloga forse, essendo l’età media della sua clientela piuttosto in là. Anziani signori di provincia dall’aria sfatta, umiliata, essi stessi tumidi, prossimi all’obesità, montano sulla fiat “da monatti” verso luoghi ameni in cui tenteranno senz’altro di appiccare i loro ultimi fuochi, ripiegando al limite in conversazioni spinte, in confessioni tra il serio e il faceto in cui l’atto è come abbozzato, se non proprio simulato – evocato nell’aria, supposto. Pinuccia dev’essere un’abile artista di surrogati, un’illusionista. Quando più tardi tornano in piazza dagli amici, il cliente [un ortolano, un ascensorista, un elettrauto] sembra ringiovanito di qualche mese, dimagrito (i liquidi); Pinuccia amorevole propone un caffè scendendo dall’abitacolo che quasi spicca il volo nello sgravio; esibisce il suo carisma femminile, terapeutico, tratta il cliente da maritino stanco, invecchiato; lo vezzeggia per quel non esser più come una volta, maschio nell’esagerazione di quella forza virile trapassata, prodigiosa soprattutto adesso che non c’è più – mistificante assenza, deficit nei cui baratri precipita davvero il più spudorato eccesso, un’implicita aneddotica di gesta erotiche. Il cliente spento, di questa menzogna elemosinata si ravviva, pur conservando il sorriso modesto, una mansuetudine d’agnello; e Pinuccia lo rincuora sempre, gli sta accanto, tanto che poi cede a farsi offrire il caffè: sullo schermo della vetrata di Viduz, da fuori, il cliente si fa avanti alla cassa, galante, cavaliere, e col garbo più retrò, ancora una volta, paga.

da L'APPARATO DIFFERENTE (2009)

Ero insensibile a quel pianto di donna, della cara Ludovica, una Borgia travestita ma poi svestita in scioltezza. Vedova di suo padre, angustiata dal fratello alcolizzato che irrompe in casa ogni notte, come Gesù al tempio, infierendo sulle rovine della famiglia, sul quel lutto ancora fresco – insomma, col cadavere di babbo ancora caldo... Ludovica, tipica orfana amante di un altro padre vicario (che ne fa le veci in tutto), un signorotto edicolante, uno che mostra alla fanciulla i suoi materiali pornografici; uno che soffre dei primi sintomi di una distrofia muscolare - perciò non gli si drizza. Dunque all’apice di una festa nazionale di Liberazione, dopo il pranzo al mare propiziatorio (afrodisiaco?), e il petting sugli scogli tra flutti infranti, si sbarca nell’appartamento destinato alla penetrazione completa. Ludovica Borgia nuda e soda, col seno gonfio di marmo, inizia a stillare il suo pianto lascia-passare, cioè tutti i credits di questo dramma; è il fallimento liquido che sgorga dai suoi occhi calcolatori: è pronta a vendersi solamente se la si acquista in blocco: seni e lacrimatoio, golfi e secrezioni, languori e lamenti un po' da sagrato – delegati, questi ultimi, a rappresentare il suo cuore; sì, il suo Amore. Tutta una muliebrità dell’abbandono, una retorica dei distacchi, di rètina e di scroto: il vecchio distrofico impotente, di lì a poco abbandonato perché la vita la chiama [a Lei, donna]; il padre morto da poco, che però continua a presenziare in casa, spettro ricattatorio, silenzioso rimprovero; il fratello ubriacone che forse molesta la cara Ludovica, ancora non si sa, ma che di sicuro sfascia la povera casa o quel che ne avanza, deruba tra suppellettili superstiti e prende a calci la vedova autentica, non troppo allegra, che è loro madre. Che disastro... Non merita forse Ludovica, questa Borgia redenta nella sventura, questa mera voglia di vita e di regno domestico, di essere salvata? Non merita forse il battesimo a nuova vita erotica: consolata, accarezzata e, in una parola, penetrata? Non merita che la si sposi prima ancora di entrarci dentro?

lunedì 8 febbraio 2016

Melancholia

Messaggio: depressione come percezione del Nulla "cosmico", conto alla rovescia verso l'apocalisse. Scena: contesto ultraborghese, colto e milionario, là dove appare ineluttabile essere felici perché non manca niente, nemmeno l'Amore (il suo simulacro). Si comincia, infatti, dalla rappresentazione del sentimento: uno sfarzoso matrimonio che riconcili con l'armonia delle stelle. Ma non funziona. Ritardi, discorsi vacui, i soliti anticonformisti che provocano imbarazzo, il wedding planner che va in crisi; e la sposa che arranca. Sparisce di continuo per riposarsi dalla pantomima generale, si ritira per un bagno caldo; poi riappare con un sorriso da condannata al taglio della torta. Tutto è macchinoso, pesante, forzato. La sorella e il cognato alludono a un patto, vogliono inchiodarla all'imperativo categorico della felicità - lei, sopraffatta dai doni, snervata dalla responsabilità, non riesce più a dissimulare. Torna in camera, dove respinge il marito (che le ha regalato una tenuta); quindi si defila con un giovane invitato e ha con questi, sul prato, un rapporto sessuale. Col procedere della notte il ricevimento si dissolve, all'alba il gioco delle nozze è finito: gli sposi si arrendono all'inutilità di ogni tentativo. Si separano, mentre il pianeta Melancholia si avvicina alla Terra, e annuncia la grandiosa metafora dell'annientamento. I giorni seguenti sono dominati dall'attesa: per alcuni scienziati sarà collisione, per altri una sorta di carezza stratosferica. Si alterna il telescopio a un cerchio di fil di ferro in cui osservare la danza della morte. Opera formidabile per potenza visiva e poetica, nonostante Wagner e il preludio al rallentatore apprezzatissimo dai critici (goffo spoiler d'autore).

martedì 2 febbraio 2016

La vie en rose

Un po' deludente, pittoresco (la Francia degli artisti alcolizzati che si ama a Hollywood). Montaggio saltabeccante, flashback con didascalie solenni ("Parigi 1935", etc.). La Cotillard brava: goffa, deturpata, un po' scimmiesca. L'Oscar una diretta conseguenza dell'abbrutimento. Comunque, si apprezza di più in altri contesti.

La bionda bestia

Qualcuno sosteneva ci fosse del marcio in Danimarca, eppure su Real Time una giovane donna racconta di esser andata lì a farsi inseminare. E' una bruna con frangetta a raso sugli occhi (la fronte ridotta a ipotesi), e ora si gode un figlio di sei anni che assomiglia a Helmut Berger, tutto boccoli platino e occhi azzurri. Lei è single e serena: il donatore, spiega con inflessione romanesca, era "aperto", così il ragazzino, al compimento della maggiore età, potrà anche conoscerlo (e, magari, imparare il danese). Al momento cresce sereno senza papà. Di cosa stupirsi? Dispone comunque di una bella famiglia allargata, con diversi amici che danno una mano e una coppia di nonni iperattivi: la madre della donna è ancora piacente, ha un nuovo compagno ben integrato nel contesto; il padre invece risulta un po' solo e distrutto, forse paga una storica difficoltà a manifestare i propri sentimenti (ex burbero, all'antica), in ogni caso da quando c'è il nipote non pensa più di buttarsi dalla finestra. Sono tutti sereni, anzi felici. Si riuniscono a pranzo come in un film di Woody Allen ambientato a Trastevere. Osservano la chioma del piccolo Helmut dalla mattina alla sera; quando dorme mettono il video in cui muove i primi passi (immortalati con una certa dose di fortuna). La puntata verte su un'imminente uscita in bicicletta: la giovane donna ha intenzione di togliere le rotelle di supporto, e si interroga sull'esito dell'esperimento. Riuscirà la gioia di casa a tenersi in equilibrio sulle due ruote? Non può fallire davanti agli affezionati del canale 31 - prima del digitale terrestre, bisogna riconoscerlo, non c'erano queste grandi motivazioni a imparare qualcosa.

venerdì 29 gennaio 2016

Piccole bugie tra amici (Les petits mouchoirs)

E' un esempio di come il cinema possa sostituire la soap opera con un significativo risparmio di tempo (Beatiful va in onda dal 1987) e un apprezzabile innalzamento di livelli (temi, linguaggio, interpretazioni). In questa commedia di Guillaume Canet c'è tutta la promiscuità che serve: Parigi e villa al mare, amici che si ritrovano a cadenza fissa, vino (rosso e bianco), amori nascosti, omosessualità dichiarata in un caffè, ossessioni e riconciliazioni, schiaffi, incidenti stradali, lutti e orazioni funebri. La casistica borghese dei sentimenti è completa - pur senza gli eccessi dell'incesto sistematico o il familismo mafioso dei Forrester. Insomma, la comicità non è mai involtaria, e lo spettatore si diverte con gusto, ben lontano da sperare in uno tsunami che devasti il set. Inoltre, c'è Marion Cotillard. Anche Francois Cluzet, bisogna ammetterlo, è efficacissimo; nessuno demerita.

martedì 26 gennaio 2016

La corrispondenza

Non è l'opera perfetta; la prolissità dei sentimenti è nel carattere cinematografico di Tornatore. Di fatto, però, un intero complesso di emozioni si attiva in modo prodigioso - non per una battuta, un gesto o una sequenza: c'è un'assenza tremenda in cui si cerca l'amato, e ne conseguono lunghe atmosfere, una traghettata verso l'al di là, il camino acceso nella casa di Borgoventoso, il computer che va a singhiozzo, un sms, un video - periodi sbalorditivi, di occhi (lucidi) che bramano una traccia, un sospetto, o un appiglio fra oggetti nudi, svuotati. Lo spettatore è con Amy in attesa che Ed si manifesti. Non si desidera l'inerzia dei ricordi, ma risposte, interazioni che aggiungano qualcosa alla loro storia. Come la luce che punteggia la notte proviene da una stella morta, ogni amore tenta di attraversare questo spazio-tempo in cerca di vita, che non basta mai. Perciò "La corrispondenza" è eccessivo, e si fa perdonare (è disperato). Anche in poesia, certe parole risultano essere di troppo. Ma un afflato misterioso le cancella, lascia che solo il senso resti, averbale, fisico, tutt'intorno allo sterno. Il riposo degli amanti è silenzio; un cielo stellato il loro sogno reciproco; pur senza dirsi addio non smettono mai d'allontanarsi, di affievolirsi verso l'Eterno.

sabato 23 gennaio 2016

Linea M

Poche fermate in autobus davvero faticose: ammorbato da un tossico che, nelle retrovie, ridacchiava in pieno voyage. Alcuni giovanotti dell'entroterra lamentavano, con la felpa a mo' di maschera antigas, la "puzza di cammello". Ma ho trovato ingiusto conferire quel miasma feroce a un animale così docile e mansueto. Giunti al porto speravano addirittura che l'uomo scendesse a lavarsi, ipotizzavano striglia e sapone depositati su una panchina della darsena: nella disperazione si ingenerano, di fatto, aspettative simili al miracolo.

giovedì 21 gennaio 2016

Philip K. Dick

Il libraio mi aveva messo in guardia su Philip K. Dick: bisogna conoscerne la biografia prima di leggere i suoi romanzi. Io sapevo quel poco ricavato dagli adattamenti cinematografici e dai soliti svogliati spiluccamenti su Wikipedia (droghe, allucinazioni, mogli, vagabondaggio), ma non è bastato per fornirgli attenuanti. "Radio libera Albemuth", nella fattispecie, è risultato di una bruttezza stupefacente. Sciatto e incentrato su noiosi complotti planetari e totalitarismo paranoico, scritto in prima persona nella cronica autoreferenzialità statunitense, scandito da esclamazioni, interiezioni, sconfina di continuo nella spacconata e nella mania di persecuzione. Ho voluto sondare dopo essere incappato in "Minority Report" di Spielberg, talmente orrendo da indurre a un'indagine sul maestro della fantascienza. Con fatica sono arrivato a pagina 122, estenuato anche dai refusi dell'edizione celebrativa Fanucci ("Speciale Philip K. Dick 1982-2012" a soli euro 6,90).

martedì 19 gennaio 2016

Carol

Buono, senza pruriti lesbo, incentrato sui sentimenti: teso a "normalizzare" l'omosessualità. La Blanchett sciantosa accende una sigaretta dietro l'altra; Rooney Mara incantevole per spontaneità e continue sfumature - ruba la scena anche alla diva. Tutto il resto è ombra.

giovedì 14 gennaio 2016

Giovane e bella

Mi ha interessato l'argomento e il punto di vista adottato: un'eziologia esplicita, una certa "spudoratezza" nell'analisi che scruta famiglia, scuola, rapporti a margine di una prostituzione volontaria. Il sesso rappresentato, invece, talvolta risulta goffo, o noioso. Quindi: sì al preambolo, ai silenzi in cui si covano propositi e degrado; sì al fratellino guardone, ai sottovoce maliziosi; sì a insinuazioni e malignità; no agli amplessi veri e propri, col su e giù da mal di mare. Nell'insieme, un'opera onesta, ben scritta, ma con attori (Marine Vacth a parte) senza infamia e senza lode. La madre, in particolare, non è proprio memorabile. In verità, Ozon non sembra occuparsi granché delle interpretazioni - l'unica a staccarsi è la protagonista - insieme a Georges, il cliente infartuato, e sua moglie (una Charlotte Rampling che ipnotizza lo spettatore).

Scheda da "Gli spietati"

http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2073

Synecdoche, New York

Produzione travagliata, ma risultato interessantissimo, con intuizioni e colpetti di genio sparsi. Philip Seymour Hoffman interpreta Caden Cotard, regista ipocondriaco e depresso che a seguito di un premio, e dopo un'intera carriera dedicata ai classici rivisitati, medita una piece finalmente personale, "sincera". Abbandonato dalla moglie pittrice, tra gli stenti di una vita affettiva che deperisce nella multifobia, inizia a elaborare il suo progetto grandioso: una scena collettiva, in una specie di hangar, dove rappresentare la verità. La sineddoche ridimensiona in termini narcisistici questo Tutto (New York) in un piccolo orticello privato: l'esistenza del regista e le sue relazioni fallimentari. Il Tempo sfugge: dopo anni di prove inconcludenti, un anziano che ha osservato il processo fin dall'inizio, si candida a interpretare il regista (il personaggio Caden Cotard), e inizia a seguirlo (come un'ombra) per entrare meglio nella parte. Presto è chiaro che la scena è anzitutto a casa; la nuova moglie, per esempio, è un attrice che interpreta se stessa; poi anche lei abbandona Cotard, e viene sostituita, pur restando - come personaggio - nello "spettacolo". Il vero soggetto della rappresentazione diventa il laboratorio teatrale in sé, e i rapporti fra attori e personaggi. Questo continuo sdoppiamento di ruoli a tratti è esilarante, con Cotard pedinato dal suo alter ego, il quale a sua volta ne subisce uno di scena, e così via. Sosia grotteschi, comparse rimproverate perché non camminano "come cammina la gente", l'assistente vera e quella che la impersona, gli incroci tra realtà e finzione, gli scambi d'identità - il gioco al massacro della rappresentazione (vita è teatro, teatro è vita) rimanda di continuo alla farsa interiore dell'artista e a una schizofrenia emotiva senza limiti.

mercoledì 13 gennaio 2016

Un sapore di ruggine e ossa

Alì è un buzzurro con la fissa dei combattimenti; ha pochi argomenti di conversazione e un figlio a carico. Ripara dalla sorella, in un contesto triste e periferico senza nemmeno l'ombra dei servizi sociali; poi viene assunto come buttafuori. Una sera, intervenendo a sedare una rissa, conosce Stephanie (Marion Cotillard). I dialoghi rudi mentre la accompagna a casa, e una certa tensione quando scopre che è fidanzata e fa l'ammaestratrice di orche (foto alle pareti), introducono la storia d'amore. Che non comincia subito perché la Cotillard ha un incidente e resta menomata: emaciata di suo, tutta nasino e Francia (Parigi), senza gambe darà il meglio. Lui, infatti, al cospetto dei monconi non fa una piega, anzi, propone gite al mare, bagni, normalità, un po' di sesso riabilitativo. C'è una delicatezza "fattiva" in Alì, senza pietismo, che giova alla causa (di Stephanie, e anche dell'opera). Film intenso, bello nonostante il titolo pretenzioso che sa d'arte funeraria.

sabato 9 gennaio 2016

Macbeth

Ieri Macbeth, in comitiva (e dietro mia proposta). Non è piaciuto a nessuno, per la "pesantezza" dei dialoghi tratti alla lettera dalla celeberrima tragedia. Nella sbrigativa conferenza tenutasi all'Old Wild West, si è subito capito che il vero problema del film è Shakespeare. Il resto, a detta dei più, "poteva anche andare". Io ci tenevo a vedere Fassbender al cinema, e fino alla grigliata era perlopiù soddisfatto: l'impianto dell'opera tocca sì il manierismo; e l'eccesso icastico, con gruppi di personaggi in posa, insieme a una smodata ricerca di simmetrie (tout court), lo rende un po' statico (c'è una componente di pittura e di teatro che rischia di prevalere su quella cinematografica). Gli attori, tuttavia, rimediano con innegabile grandezza: anche Marion Cotillard - una Lady Macbeth emaciata che, infine, lacrima sulla propria istigazione. In generale, belle atmosfere con tanta nebbia, paesaggi montuosi, cieli funesti e spettri, uomini sordidi coperti di cicatrici; e interni gotici, candele, banchetti sfarzosi, ombre e paranoia dappertutto.

venerdì 8 gennaio 2016

Two mothers

Adattamento cinematografico di un romanzo di Doris Lessing con titolo più interessante ("Le nonne"). Il film, forse per componenti francesi un po' fumose, regredisce nello standard edipico delle madri patinate, Naomi Watts e Robin Wright: due amiche per la pelle quasi lesbiche. Vivono in simbiosi fin da bambine e contagiano questa morbosità esclusiva anche ai loro due figli, giovani adoni del surf. All'inizio, milf in intero e paglietta, osservano la splendida prole sui cavalloni australiani, preparano loro cenette da servire in una terrazza con vista sull'Oceano, bevono calici di vino bianco, giocano a carte tutti e quattro fra doppi sensi, allusioni sessuali e discorsi nemmeno troppo intelligenti, ma comunque ascrivibili a una mentalità apertissima. Per inciso, Naomi Watts è rimasta vedova molti anni prima; Robin Wright, invece, ha un marito professore che subisce la situazione con vaga insofferenza, al punto da chiedere e ottenere il trasferimento all'università di Sydney. Ma il proposito di allontanare la famiglia dalla torbida baia fallisce: quando parte (da solo) per un paio di settimane di prova, l'ineluttabile è già alle porte. Il figlio della vedova, infatti, è innamorato di sua moglie. Si assiste, quindi, a un incesto per interposta persona, con gli adoni che, di fatto, si scambiano le madri come fossero tavole. Sarei curioso di leggere il romanzo per sondare meglio la dinamica psicologica: il film di Anne Fontaine semplifica di brutto, le due amiche accettano la tresca con relativa disinvoltura, anzi, riconsolidano la loro alleanza sulla base di questo incrocio "pericolosissimo", mentre i figli continuano a surfare. Il soggetto, buono, è un po' sprecato - nonostante la verve delle attrici, sedotte da un copione che vorrebbe affermare i valori di una femminilità liberata (anche dalla maternità), sebbene altruistica e, infine, votata al disastro: quando la Watts viene abbandonata per una ragazza più giovane, anche la Wright tronca col suo Edipo: è giusto così. Poi gli adoni si sposano e diventano papà, e le madri-amanti nonne. In chiusura, i quattro sono ancora insieme, stesi al sole dell'Australia: in rapporto alla sovraesposizione, risultano essere un po' troppo pallidi.

giovedì 7 gennaio 2016

Il Barbatromba

Era una piovosa mattina di novembre (mi trovavo davanti al Palazzo di Giustizia) quando arrivò la notifica Fb: Gianrico Barbatromba (cambio il nome per decenza) aveva accettato la mia richiesta di amicizia. Potrei giurarlo: non avevo inviato nessuna richiesta, non avevo nemmeno mai visto quell'uomo (un obeso con occhiali alla Brecht). Non so come sia potuto accadere (i polpastrelli, lo smartphone...), però siamo ancora amici. Io sono un po' all'antica: non avendo avuto la prontezza di chiarire subito l'equivoco, ho a lungo covato il proposito di cancellare Barbatromba in silenzio, senza che se ne accorgesse. Ma anche il verbo "cancellare", in rapporto a un signore così voluminoso, mi pareva sconveniente. Mentre esitavo, ho avuto modo di scoprire la sua educazione (tra gli stati quotidiani non mancano laconici buongiorno, buonpomeriggio, buonasera e buonanotte), e la sua frenetica attività divulgativa: condivisioni a getto continuo, musica di ogni genere a tutto spiano, link di scultori e pittori maggiori e minori; ogni 15/20 minuti sgrana una perla dall'inesauribile baccello Youtube. Tutta questa esuberanza culturale non lenisce, però, il pessimismo cosmico di Barbatromba: con frequenza di circa 45/60 minuti arrivano, lugubri pullman, sermoni di autocoscienza sociopatica, di autodiagnosi depressiva, di autodistruzione promessa. Ecco, per esempio, che fra le persone che "potrei conoscere" mi giunge - in comune col Barbatromba - un "Amico della Maremma", con foto di busto maschile glabro, e pube criptato da apposita finestra (si apprezzi il simbolismo: dietro la finestra, il Maremmano). L'amico della Maremma, infatti, è subito percepibile come entità doppia (il viandante e il suo bastone). Anche a seguito di questo fortuito incontro, ho visto il Barbatromba sotto un'altra luce: un bagliore di schizofrenia e omosessualità (da solitudine). Il serioso divulgatore di Gloria Gaynor, di Virginia Woolf, di Martin Scorsese e del Kamasutra (indimenticabili i commenti tecnici sul "tratto"); il pessimista di riferimento per una cerchia di cinquanta-sessantenni devastati dall'ozio, ha svaghi un po' ellenici. Ne sono lieto: ci tengo, alla felicità dei miei amici.

mercoledì 6 gennaio 2016

Nei mari estremi

Questo libro di Lalla Romano è un memoir amoroso, e non può che parlare (anche) di morte. Non ci sono cadute macabre né compiacimenti sentimentali. Consta di due parti: la prima, "Quattro anni", relativa alla conoscenza col futuro marito Innocenzo Monti; la seconda, "Quattro mesi", resoconto della malattia di lui, "diminutio" e progressivo allontanamento che lo condurrà alla Fine (ma l'Eterno, come si dice nella postfazione, è tempesta). Un'opera di altissima testimonianza umana, di sentimenti grandi, senza pose né allusioni monumentali, in cui riverbera con spaventosa purezza il mito di Eros e Thanatos. L'amore, nella maggior parte dei casi, implica un addio tragico, e il dilemma: meglio morire prima o dopo dell'altro? Il "destino biologico" non si può decidere, va da sé, e il libro lo racconta affidandosi a una prosa asciutta, levigata. Gli affetti, l'amicizia, i ricordi dell'infanzia, tutto converge in questa storia a due, tra libertà e possesso, spirito e carnalità. C'è Lei, l'artista coi suoi egoismi e slanci, l'intemperanza, la pretesa di vita selvaggia; e c'è Lui, Innocenzo, l'uomo di banca che fa carriera, poeta che non scrive, ma erudito, fruitore d'arte - superiore in tutto poiché senza atteggiamenti, senza vanità d'autore. "Nei mari estremi" è una sorta di omaggio, l'ultimo, all'uomo meraviglioso, il compagno, il maestro di pietà di Lalla Romano - degno dell'amore che li ha uniti in vita, questo sentimento è rivissuto pagina dopo pagina con onestà e, in una certa misura, con sconcerto: perché è assurdo che sia finito (in due tombe sovrapposte, come stavano nel vagone letto; lui sotto, lei sopra). In termini letterari il romanzo è formidabile, aggira l'autoreferenzialità per osservare con distacco perfino la disperazione - senza urlarla, senza gettarla addosso al lettore. Tutto è sobrio, se non addirittura austero - una bellezza senza ornamenti, di pensiero filosofico che amoreggia, di astrazioni che si fanno corpo, e talamo. Ancor più di un libro stupendo, una lezione, una vera e propria "stilistica" dell'Amor Profano.

martedì 5 gennaio 2016

Il ponte delle spie

Mi ero ripromesso di contare quante volte sarebbe apparsa la bandiera americana. Tuttavia amo il cinema, non l'aritmetica - e Spielberg resta comunque un patriota con un senso della Costituzione da sbandierare ai quattro venti. Nella fattispecie, il suo eroe è un avvocato che in piena Guerra Fredda accetta di difendere la solita spia russa impassibile (però dedita alla pittura e con un debole per Shostakovich). Il regolare processo che si istruisce ha un mero valore simbolico e dimostrativo, ma Tom Hanks - che per Spielberg è già sbarcato in Normandia - se la prende a cuore: prima ottiene un insperato rinvio; poi, osteggiato dai colleghi, dal giudice e dall'opinione pubblica (che vorrebbe il comunista già accomodato sulla sedia elettrica) riesce addirittura a salvare l'assistito da un'ovvia condanna a morte - questo nell'eventualità di uno scambio di prigionieri con l'Unione Sovietica. Di lì a poco, un U2 viene abbattuto e il pilota catturato. Frattanto, a Berlino, un neolaureato americano decide di andare avanti e indietro per il Muro in costruzione, e viene arrestato dalla polizia della Germania Est. Si profila, quindi, la possibilità di uno scambio. L'avvocato, senza compenso né protezione, viene incaricato dalla Cia di negoziare coi russi per ottenere indietro l'aviere. Hanks, figuriamoci, non si accontenta: vuole anche il neolaureato (in economia). Va a Berlino, alloggia in un tugurio (gli agenti della Cia, invece, all'Hilton); e mentre si reca all'ambasciata sovietica (sta nevicando) gli rubano il cappotto. Ma viene ricevuto lo stesso. Tratta con molta arguzia. Non solo: sebbene raffreddato, incontra un avvocato DDR per il rilascio dell'improvvido economista. Hanks fa il doppiogioco meglio di una spia vera. Il filmone mette in scena valori umanitari di prim'ordine, ridicolizza i servizi segreti, in particolare un agente Cia preso di continuo a pesci in faccia, e ribadisce al mondo intero la grandezza degli Stati Uniti d'America. Peccato solo non aver inserito "The star spangled bunner" nei titoli di coda.