giovedì 19 giugno 2014

Giorgio Mario Bergamo

Sto leggendo "L'estate, forse" con gusto inaudito: è una prosa alta e "discriminatoria" che si sovrappone, quasi, alla vicenda, diventa il romanzo stesso. Più che scrittura difficile, un sentimento aulico senza concessioni alla fruibilità - una specie di memoir che forza la sintassi, la piega ai suoi bisogni fisici, di narrazione corporea e capricciosa, un po' viziata, perfino. Mi appaga molto leggere questa libertà stilistica: è come operare una decifrazione: il vocabolario sovrabbondante, principesco, mi sollecita di continuo a indagini etimologiche, come a misurare lo spessore della lingua adottata. E poi la materia: il ritorno dalla guerra, gli stenti della normalità coi ricordi del Fronte che ancora fumano; e Parigi, rue de Montmartre - l'occhio languido, la sensualità, la solitudine individuale che vaga per la Storia... Ho dato un'occhiata alla biografia di Giorgio Mario Bergamo, e si capisce meglio, forse, perché un libro così sia arrivato alle stampe, e da Einaudi. Ma tutto passa in secondo piano rispetto al godimento che ne traggo.

sabato 14 giugno 2014

Il Griso

Io so chi è il Griso: c'è una zona della mia psiche in cui egli ancora gironzola torvo, indisturbato e superfluo. Questo accade perché non ho "interiorizzato" Manzoni - e per il solo fatto di non essermene mai occupato. Nessuno, d'altronde, mi ha costretto ai libri: li leggo perché, intorno ai sedici anni, ho scoperto che alcuni soddisfacevano (in parte) la mia libido. Non dubito che taluni abbiano tratto un torbido gusto dai Promessi sposi, ma per quanto mi riguarda potrei leggere questo capolavoro solo dietro compenso.

venerdì 13 giugno 2014

La spartizione

Il riferimento a Boccaccio, in Piero Chiara, è spesso dichiarato anche in epigrafe ai suoi romanzi (“Il Pretore di Cuvio”, “Spartizione”), ma non è certo un omaggio erudito. È, semmai, la consapevolezza di percorrere una strada classica di narrazione pura e vitale, piena di gusto per i fatti umani: un Decamerone ridotto, provincializzato, in balia di una nuova piccineria ancor più comica, forse (perché è più miserabile e tragica), dell’originale . Anche qui, in riva al Lago, abbiamo una quotidianità scarna, cattolica, di vizi nascosti e ingobbiti. E tre sorelle, tre disgrazie che solo la parrocchia poteva accogliere. La turbativa è un uomo insulso come gli equilibri che è venuto a rompere: un abitudinario, un gretto fatto per l’iter della burocrazia in un’Italia già fascista. Si chiama Emerenziano: arriva, scruta, misura; e si mescola, tiepido, alla freddezza locale. Deciso a prender moglie, posa gli occhi sui tre sgorbi. Attratto dalla sorella di mezzo, Tarsilla (quella dalle gambe lunghe), sceglie la più anziana, Fortunata, la cui peculiarità sono i capelli lunghissimi; ma ha notato anche la più piccola, Camilla, il cui pezzo forte è rappresentato dalle mani. Si assiste così a una serie di magre schermaglie con inviti pretestuosi e stentata conversazione, e con pranzi noiosi a cui nessuno, preso com’è dai propri calcoli, si ribella. L’infelice metronomo della religione inizia a perdere colpi, e le possibilità della lussuria aleggiano, danno ai personaggi una certa svagatezza: li osserviamo cambiare poco a poco, tutti, finché non si raggrumano in una promiscuità incestuosa, miope, scandita da turni grotteschi. Ecco a notte alta quella taciturna sex machine di Emerenziano passare da una camera all’altra delle tre sorelle, calendarizzare il “dovere”, elargirlo con equanimità; e udiamo levarsi voci e giustificate malignità in paese... Il meglio di Piero Chiara è proprio in questa cronaca impietosa di banalità e camuffamenti, dove la macchietta sfugge per un istante al sorriso cattivo che suscita, e si rivela in tutta la sua sfortunata povertà, anche storica.

venerdì 6 giugno 2014

Stanchezze

I protagonisti di Arpino e Piovene hanno in comune di non aver voglia nemmeno di respirare.

giovedì 5 giugno 2014

Le stelle fredde

Continuo la panoramica sui narratori italiani del Novecento: Moravia, Chiara, Arpino, e oggi Guido Piovene. Preferisco la linearità di "Agostino" o il vitalismo beffardo de "Il pretore di Cuvio" alla stanchezza occidua de "La suora giovane" e all'ininterrotto piano sequenza de "Le stelle fredde": certi autori sembrano dimenticare che non si dà romanzo senza dei fatti (qualcosa che accada al di là dei pachidermici movimenti di vita interiore). Talvolta, scrivono pensando a Proust, e a una nauseata erudizione che nessuno ha loro imposto: hanno sgobbato sui libri per lamentarsene? Questo verboso accanimento, che si connota nello sfiancante esercizio descrittivo (onanismo), è una buffa ritorsione: pongono al centro della loro opera una sofferenza accademica, e, incapaci di elaborarla, tentano di elevarla a una condizione di spleen contemporaneo. Tanti minori, a ben guardare, è giusto che restino tali.

lunedì 2 giugno 2014

LA CHIAVE

Sulla finezza psicologica di Tanizaki si è scritto fin troppo, e la scena di questo famoso romanzo è nota: il professore svigorito che arranca in camera da letto; la moglie insaziabile ma pudica, che poco a poco sveste il kimono della tradizione nipponica per manifestarsi in tutta la sua lussuria occidentalizzata; la loro figlia, che dietro l'ostilità opera come una ruffiana e sacrifica il suo promesso sposo, Kimura, Terzo-comodissimo giovane amico di famiglia, caduto anch'egli a fagiolo in questa crisi coniugale (che è, anche, una metafora del Giappone antico). La Chiave, di fatto, mette in rapporto quattro psicologie in costante dissimulazione erotica: quattro maniaci sessuali, con la donna subordinata al progetto del maschio (in chiusura, ci si avvede che la figlia ha operato dietro l'input del fidanzato attratto dalla suocera). L'intreccio elaborato non riscatta, però, la straordinaria goffaggine del libro, che ha per catalizzatore il Courvoiseir: il cognac ubriaca i coniugi e offre alla protagonista il pretesto per uno sfrenato imputtanimento. L'alterazione alcolica è la vera chiave (un passepartout morale, da scassinatore) che permette a Tanizaki di allestire il suo teatro feticista. Concesse le doverose attenuanti geografiche e storiche (anche rispetto a un De Sade, che centocinquanta anni prima non si metteva tutti questi problemi), il romanzo sfiora il ridicolo.