giovedì 21 aprile 2016

Suicidarsi nella radura (CORREZIONE di T. Bernhard)

Già il luogo in cui Roithamer decide di suicidarsi, una radura, rievoca Heidegger e quell’improvviso diradamento nell’Essere che, in “Correzione”, è rovesciamento definitivo (un cappio, una corda legata a un albero). Il rapporto andrebbe approfondito: ci sono numerose testimonianze dell’avversione di Bernhard per questo “ridicolo filisteo nazionalsocialista coi pantaloni alla zuava” (così in “Antichi maestri”), ma resta più di un sospetto: anche la ripetitività della prosa, la cadenza ipnotica della narrazione, e in fondo tutti gli ambienti spogli idonei al pensiero (la soffitta di Hoeller, per esempio, e lo stesso Cono, irraggiungibile, occultato al centro della foresta di Kobernausser) rimandano a quella sorta di mistica ontologica che Heidegger praticava nella sua baita, in piena Foresta Nera. La disciplina monastica dell’esercizio intellettuale, il progressivo ritiro dalla vita sociale, la strenua difesa della propria natura o “personalità”, con radicale dispiegamento di insofferenze e ribellioni al quotidiano più gretto, assumono in Bernhard il carattere dell’intransigenza assoluta, e sfumano in una maniacalità di rituali via via più precisi, quasi mortali. Tutto è professione di purezza, un lavorio in cui si radunano con tenacia ossessiva le risorse vitali dell’individuo: idee, progetti, audaci realizzazioni. L’esistenza è intesa come un’opera che pretende il massimo sforzo, anche metodologico. Senza di questo, è nulla. Ma anche il compimento dell’esistenza si rivela, al culmine, Nulla. Roithamer concepisce il Cono, edificio di cui non esistono precedenti in Europa, per la felicità di sua sorella; tuttavia – di fatto – il completamento dell’opera implicherà la morte della creatura da lui più amata, e la fine della sua vita medesima (come scienziato, come uomo). Questo destino di annientamento è avvertito in ogni singolo istante, ridimensiona qualsiasi esperienza, prima materiale, poi spirituale – in una funesta escalation in cui tutto è connesso (all’infanzia, al susseguirsi di fallimenti emotivi e sentimentali). L’effetto comico raggiunto in diversi passaggi scaturisce, quindi, da fondamenta tragiche: la colossale fossa comune della Storia occidentale; la storia, verrebbe da pensare, della coscienza umana.

sabato 16 aprile 2016

AMOUR di M. Haneke

Un'opera austera (un po' lugubre) che racconta l'amore fra due anziani professori: lei colpita da ictus, due attacchi che la annientano; lui, già malconcio, si fa carico di tutto col solo aiuto di un'infermiera specializzata per tre volte a settimana. La condivisione di un'intera vita si estende a questo calvario affrontato con dignitosa rassegnazione o, in una parola, con naturalezza. Il pudore estremo di Haneke (regia statica, dialoghi ridotti all'osso), e una generale compostezza di abitudini nella coppia rappresentata, con rituali casalinghi improntati al decoro e un'intimità di gentilezze che sopravvivono, aggira il penoso spettacolo dell'agonia. Solo ogni tanto, i tempi morti della malattia, dettagli d'ospedalizzazione, balbettii angoscianti, pappe somministrate con snervante fatica, cucchiaiata dopo cucchiaiata. Quello imboccato è un vicolo cieco, non ci si può aspettare lieto fine. Rispetto ai numerosi precedenti di "cinema terminale", colpisce l'ambientazione alto borghese, l'enorme appartamento parigino in un palazzo gentilizio, boiserie e scaffalature stipate di libri, tappeti, e il pianoforte a coda, il filetto a pranzo, i vini; la servitù che sfacchina mentre i padroni leggono trattati di musicologia. Questi ricchi, tuttavia, non piangono. La morte si insinua fra i mobili d'antiquariato, accolta senza drammi né tracolli sentimentali. Tutto è azione terapeutica, impegno fattivo, pragmatismo borghese anche nell'assistenza, cambi di pannoloni compresi. Si propone una versione totalizzante dell'empatia coniugale, una poetica del gesto, del riguardo, dell'ascolto incondizionato. Così una seconda infermiera viene licenziata in tronco perché, nonostante faccia quel che c'è da fare, sbaglia i modi. Gli sposi, alla fine, restano soli - perché il loro amore, in definitiva, è un destino in cui abbracciano, senza calcoli né tornaconto, le rispettive solitudini.

giovedì 14 aprile 2016

Un bacio sulla fronte (A COLPI D'ASCIA di T. Bernhard)

(Anche) “A colpi d’ascia” è una stupefacente liquidazione del mestiere romanzesco e, in particolare, della composizione accademica: completo disinteresse per l’allestimento narrativo e per la strategie di suspense. Tutto in Bernhard è scrittura, decostruzione di una ipocrisia connaturata nell’uomo e, anzitutto, nell’intellettuale. La scena del romanzo è psichica, con sollecitazioni esterne perlopiù luttuose (qui il suicidio di un’amica e, come accade sovente, un suicidio “annunciato”) o ridotte a spunto per raccontare, tra insofferenza e plateale esaurimento, grette abitudini sociali, una sorta di nevrosi austriaca e, nella fattispecie, viennese (la “cena artistica” a casa dei coniugi Auersberger). La scrittura si affida a una spirale di elucubrazioni e instancabili rimuginii, senza mai scivolare in flusso di coscienza – perché non si tratta di riprodurre soliloqui, come farebbe un guitto degli stili letterari, ma di abbandonarsi al rinvangare ossessivo del pensiero. Così, a ogni pagina, ritornano parole emblematiche, tipo “disgusto”, “rivoltante”, “catastrofico”, “atroce”, “nauseante”; o intere frasi in un concatenamento della più profonda sfiducia nel genere umano, a cominciare dalle sue istituzioni (lo Stato ridicolo, il disastroso Burgtheater, etc. ). Il giudizio impietoso sulla meschinità dell’Uomo, tra vittime e carnefici che si scambiano il ruolo, si abbatte in primis sui sentimenti. L’amore, ineluttabilmente, diventa odio; l’amicizia feroce disprezzo: Bernhard stesso patisce questo deterioramento degli affetti: negli anni Cinquanta, spiantato, adorava gli Auersberger, frequentava con assiduità la loro casa, sopraffatto dagli agi borghesi, da un’aristocrazia dello spirito alla quale, giovane e inesperto, desiderava innalzarsi. Trent’anni dopo, la biblioteca di famiglia, gli arredi d’epoca, i cibi prelibati, la mondanità di cui aveva profittato, gli appaiono un adescamento, una menzogna. I suoi amici l’avevano, sì, riconosciuto come scrittore e introdotto nella società degli artisti, ma non si era trattato di “mecenatismo”; lui si era inserito in una storia di grandiosa ospitalità che riempiva un vuoto coniugale dilagante, aveva interpretato la parte del giullare per una coppia letteralmente devastata dalla noia. Tutti i rapporti, di fatto, si giocano su questa reciproca economia, con un debitore che, presto o tardi, si sente in credito. La posta in palio è l’identità, e il “valore” che ciascuno sente di rappresentare. Perciò, alla fine, non c’è pietà né perdono – nonostante ci si congedi, per sempre, con un bacio sulla fronte.

sabato 9 aprile 2016

GELO di Thomas Bernhard

Si arranca un po’ a leggerlo, ma si va avanti - con passo rassegnato da corteo funebre. Ogni tanto c’è una grande pagina che si eleva dalla cenere – il nero stilistico, ali di un corvo, è così lucido da sfavillare: proprio sulla scorta di questi bianchi intensissimi val la pena di affrontare Bernhard. I suoi romanzi, d’altronde, mirano dritti all’obitorio della civiltà, andrebbero sfogliati sulla panchina di un cimitero, col sottofondo di un’upupa. Per apprezzarli bisogna trovarsi in sintonia con i requiem, avere un debole per tetri paesaggi al crepuscolo, subire il fascino della deteriorabilità, patire un macabro interesse per l’organico e per il destino di putrefazione che accomuna qualsiasi forma di vita. “Gelo”, quindi, è un romanzo rivolto anzitutto ai materialisti indefessi, agli atei risentiti che vorrebbero distruggere il mondo per vendetta, agli oncologi mancati che ripiegarono, chissà perché, sulla letteratura. Se la parola “speranza” rievoca subito il concetto di menzogna, e se si intende il suicidio come un atto di suprema lucidità, uno scrittore come Bernhard è davvero il massimo. Una sorta di evangelista del nichilismo secondo cui ogni Verità, di per sé, è un abisso di miserie, furti e sciacallaggio; un baratro di voracità cannibalesche, di slanci effimeri che subito ricadono in uno stato di abbrutimento ancora più violento. Non si salva nessuno da questo colossale mattatoio in cui ci si macella a vicenda. Il teatro è un borgo sperduto fra i monti, in una conca opprimente, semiassiderata e piena di carogne. Sepolti nella neve, residui bellici, ordigni che esplodendo mutilano i bambini; c’è anche un fiume in cui galleggiano carcasse di mucca, un bosco in cui si aggirano scuoiatori becchini e operai di una centrale elettrica in costruzione, una cupa umanità ingobbita, elucubrante, spinta dalla “lussuria” imbecille. Gli episodi sono una concatenazione di disgrazie d’alta montagna: l’incendio in cui muore una contadina, o un giovanotto nel fiore degli anni schiacciato dalla propria slitta; poi la contemplazione delle salme, e il funerale. In tutto questo, gli interminabili monologhi di Strauch, portavoce di una filosofia che nega il Senso e qualunque possibilità di evoluzione. Non gli si può dare torto; però, forse, la tira un po’ per le lunghe.

mercoledì 6 aprile 2016

Morire è necessario

Nelle soap di tutto il mondo c’è almeno una costante: nonostante il gran numero di professionisti impiegato per realizzarle, il risultato è (invariabilmente) ridicolo. L’alibi sentimentale crolla, con puntuale sistematicità, nella cupidigia sessuale, in una promiscuità spesso e volentieri incestuosa. Beautiful, a tal riguardo, è il paradigma. L’appartenenza alla famiglia degenera in focosi incroci a rischio genetico, che risolvono alla spiccia i crucci di Edipo e di Elettra. Si conoscono tutti, prima o poi, e nascono così dei mostri (Rick Forrester, per esempio). Resta l’incognita di come si possa mandare avanti un’azienda di quel livello (con sedi a New York, Parigi e Milano) occupandosi solo di organizzare cenette a lume di candela e matrimoni. Gli stessi avvocati a libro paga, negri muscolosi, non fanno altro che allenarsi in palestra e bere integratori. In Cento Vetrine c’è una maggiore attenzione per gli affari (e, si fa per dire, per la verosimiglianza). Nella sceneggiatura, infatti, compaiono parole tipo “holding” e “consiglio di amministrazione”. Il set mal illuminato, con modesti arredi acquistati da Conforama, talvolta ospita anziani in sovrappeso, sinistri settantenni con un piede nella fossa che esprimono, un po’ al ribasso, la rassegnazione degli azionisti. Ettore Ferri, il Presidente, è perfetto. Recita con una mano perennemente in tasca, è il Napoleone del management italiano. Lo si immagina senza sforzo in un balletto ispirato all’Amleto (ma in calzamaglia, quindi senza tasche, non renderebbe al meglio). Negli ultimi tempi, dalla Spagna, arrivano soap in costume di gran pregio. Il segreto e Una vita sono un’unica grande telenovela in cui riecheggiano i costrutti ampollosi dell’Ottocento. Ma l’impianto è minimal, con tradimenti consumati in un sottoscala, amanti che forse sono fratelli, madri a cui rubano i figli, preti innamorati (Uccelli di rovo), un po’ di stalking alla Werther e, ineluttabilmente, avvelenamenti con tempestivo reperimento di un antidoto. In tutti i casi si verifica, all’uopo, almeno una perdita della memoria: un utile espediente per fare di un cattivo un buono – o viceversa. L’improvviso vuoto mnemonico, magari a seguito di un trauma, e il relativo cambio di segno morale in uno dei protagonisti, movimenta la storia, che altrimenti si appiattirebbe nella mera eternità. Tutti noi, al cospetto di una soap, iniziamo a temere di non avere fine, e ci spaventiamo.