sabato 16 aprile 2016

AMOUR di M. Haneke

Un'opera austera (un po' lugubre) che racconta l'amore fra due anziani professori: lei colpita da ictus, due attacchi che la annientano; lui, già malconcio, si fa carico di tutto col solo aiuto di un'infermiera specializzata per tre volte a settimana. La condivisione di un'intera vita si estende a questo calvario affrontato con dignitosa rassegnazione o, in una parola, con naturalezza. Il pudore estremo di Haneke (regia statica, dialoghi ridotti all'osso), e una generale compostezza di abitudini nella coppia rappresentata, con rituali casalinghi improntati al decoro e un'intimità di gentilezze che sopravvivono, aggira il penoso spettacolo dell'agonia. Solo ogni tanto, i tempi morti della malattia, dettagli d'ospedalizzazione, balbettii angoscianti, pappe somministrate con snervante fatica, cucchiaiata dopo cucchiaiata. Quello imboccato è un vicolo cieco, non ci si può aspettare lieto fine. Rispetto ai numerosi precedenti di "cinema terminale", colpisce l'ambientazione alto borghese, l'enorme appartamento parigino in un palazzo gentilizio, boiserie e scaffalature stipate di libri, tappeti, e il pianoforte a coda, il filetto a pranzo, i vini; la servitù che sfacchina mentre i padroni leggono trattati di musicologia. Questi ricchi, tuttavia, non piangono. La morte si insinua fra i mobili d'antiquariato, accolta senza drammi né tracolli sentimentali. Tutto è azione terapeutica, impegno fattivo, pragmatismo borghese anche nell'assistenza, cambi di pannoloni compresi. Si propone una versione totalizzante dell'empatia coniugale, una poetica del gesto, del riguardo, dell'ascolto incondizionato. Così una seconda infermiera viene licenziata in tronco perché, nonostante faccia quel che c'è da fare, sbaglia i modi. Gli sposi, alla fine, restano soli - perché il loro amore, in definitiva, è un destino in cui abbracciano, senza calcoli né tornaconto, le rispettive solitudini.

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