sabato 9 aprile 2016

GELO di Thomas Bernhard

Si arranca un po’ a leggerlo, ma si va avanti - con passo rassegnato da corteo funebre. Ogni tanto c’è una grande pagina che si eleva dalla cenere – il nero stilistico, ali di un corvo, è così lucido da sfavillare: proprio sulla scorta di questi bianchi intensissimi val la pena di affrontare Bernhard. I suoi romanzi, d’altronde, mirano dritti all’obitorio della civiltà, andrebbero sfogliati sulla panchina di un cimitero, col sottofondo di un’upupa. Per apprezzarli bisogna trovarsi in sintonia con i requiem, avere un debole per tetri paesaggi al crepuscolo, subire il fascino della deteriorabilità, patire un macabro interesse per l’organico e per il destino di putrefazione che accomuna qualsiasi forma di vita. “Gelo”, quindi, è un romanzo rivolto anzitutto ai materialisti indefessi, agli atei risentiti che vorrebbero distruggere il mondo per vendetta, agli oncologi mancati che ripiegarono, chissà perché, sulla letteratura. Se la parola “speranza” rievoca subito il concetto di menzogna, e se si intende il suicidio come un atto di suprema lucidità, uno scrittore come Bernhard è davvero il massimo. Una sorta di evangelista del nichilismo secondo cui ogni Verità, di per sé, è un abisso di miserie, furti e sciacallaggio; un baratro di voracità cannibalesche, di slanci effimeri che subito ricadono in uno stato di abbrutimento ancora più violento. Non si salva nessuno da questo colossale mattatoio in cui ci si macella a vicenda. Il teatro è un borgo sperduto fra i monti, in una conca opprimente, semiassiderata e piena di carogne. Sepolti nella neve, residui bellici, ordigni che esplodendo mutilano i bambini; c’è anche un fiume in cui galleggiano carcasse di mucca, un bosco in cui si aggirano scuoiatori becchini e operai di una centrale elettrica in costruzione, una cupa umanità ingobbita, elucubrante, spinta dalla “lussuria” imbecille. Gli episodi sono una concatenazione di disgrazie d’alta montagna: l’incendio in cui muore una contadina, o un giovanotto nel fiore degli anni schiacciato dalla propria slitta; poi la contemplazione delle salme, e il funerale. In tutto questo, gli interminabili monologhi di Strauch, portavoce di una filosofia che nega il Senso e qualunque possibilità di evoluzione. Non gli si può dare torto; però, forse, la tira un po’ per le lunghe.

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