martedì 10 marzo 2015

Anna Karenina (di Wright)

Perché girare un kolossal se non si crede più nella finzione? A che pro grandiose scenografie in divenire, con scorci di quinte e svelato spostamento d’attori che, per poco, non ripassano la parte? Perché ricordare di continuo al pubblico che nulla di quanto rappresentato è vero, anzi che tutto è falso come i soldi del Monopoli? Considerati i milioni, autentici, per realizzare l’ennesima, balorda, rilettura di Tolstoj, il disinvolto postmodernismo dell’Anna Karenina di Wright sembra arrivare con quarant’anni di ritardo: tempo utile per codificare i precetti delle avanguardie contro la “rappresentazione”, e farne una bella recita sfarzosa, con l’eroina paranoica che si butterà sotto un treno dopo aver fatto disperare tanto il marito (spelacchiato, cornificabile per fisionomia) quanto l’amante (un Vronski tutto baffi e puttane in vista).

lunedì 9 marzo 2015

Le ricamatrici

È uno di quei piccoli lungometraggi a basso costo, “corti” all’europea per l’impianto sottotono, con personaggi introversi e campagna francese dappertutto. Poi, la regia al femminile, che per definizione gioca ancor di più al ribasso distribuendo timidezza a monosillabi, e scampoli di una fraseologia da cui si evincono (approssimati per eccesso) conflitti, sovrapposizioni, scambi di persona o transfert. La cinematografia europea si riconosce, da lontano, per l’ipersensibilità che muove i personaggi e per i loro movimenti psicologici, il cui spazio ideale è la saletta di un cinema d’essai. Il tocco femminile per il trattenersi, la pazienza (d’Arianna), lo sguardo distolto all’ultimo, i pudori, e qui addirittura l’ago e il filo, rappresentano al meglio quel senso di rammarico per essere nate donne. La protagonista ingravidata, che tenta di occultare il proprio stato interessante e cova di liberarsi del bambino, per giustificare l’ingrasso si appella a un tumore, già proponendo una chiara metafora (europea) di che cosa significhi la Vita. Nello scenario di una tristezza senza clamori, la giovane trova lavoro presso una nota ricamatrice, elegante Giocasta vestita di nero che, rimasta vedova di suo figlio, fallisce anche il suicidio, soccorsa dalla nuova apprendista. S’instaura quindi una complicità tra due madri, l’una che ha perduto il figlio e l’altra che lo aspetta, in una delicata riscoperta dell’emotività che infonde nel pubblico una certa fiducia nell’uomo (ma, soprattutto, nella donna). Regia di Éléonore Faucher. Con Lola Naymark, Ariana Ascaride, Marie Felix, Thomas Laroppe, Arthur Quehen, Jacky Berroyer. Titolo originale Brodeuses. Francia 2004

mercoledì 4 marzo 2015

La figlia oscura

Leda è una docente universitaria quarantottenne, separata, madre di due figlie che, ormai adulte, si trasferiscono in Canada. Rimasta sola, si scopre poco afflitta; anzi, in una certa misura, liberata. Parte per una villeggiatura col suo bagaglio di frustrazioni letterarie e sensi di colpa da emancipazione (in passato, nel tentativo di realizzarsi, aveva temporaneamente abbandonato le figlie). L’isolamento vacanziero innesca continui flashback (più o meno autocritici) e bilanci esistenziali. Molte pagine se ne vanno così, ripercorrendo una casistica di penosi affrancamenti: la donna volitiva che si ribella alla schiavitù della maternità; l’intellettuale fine che si discosta da una rozza discendenza femminile di napoletanità casalinghe; la studiosa di letteratura inglese che lotta invano contro le sguaiataggini della sua parlata, etc. Se ne ricava una biografia che cerca riscatto nell’affinamento culturale, e, anche, nel ripudio delle origini: la costruzione, pietra su pietra, di un’identità nuova è il destino dei “diversi”? Leda, per sua stessa ammissione, è un po’ snob. Durante la villeggiatura si scopre attratta da Nina, una giovane mamma che frequenta lo stabilimento balneare. Dall’ombrellone, la osserva giocare con la figlia Elena e una sinistra bambola che diventa presto simbolo condiviso di femminilità in embrione. Leda è affascinata dal placido erotismo di quella simbiosi, ma al tempo stesso dal potenziale eversivo, individualistico, di Nina, in cui rivede se stessa da giovane. Inizia quindi un gioco di proiezioni. La giovane mamma, infatti, è circondata da una chiassosa famiglia “allargata”, napoletani invadenti, socievoli sul filo di una violenta aggressività che manipola, gestisce, ricatta gli altri bagnanti (e, col nome di “Camorra”, il resto del mondo). Leda, che ha la fissa dell’incivilimento, ruba la bambola e inizia a coccolarsela e a “lavorarci” nella solitudine della sua villetta presa in affitto. Vuol ripulire quella creatura di gomma, sgravarla del limaccio che ha bevuto (uno sperma sabbioso, fecondante). In verità, non sa spiegarsi l’esatta ragione di un simile comportamento, ma lo porta avanti nonostante il dramma scatenato nella piccola Elena, che, senza la sua bambola, si dà in capricci interminabili, contesta la mamma, e mette a soqquadro l’intero paese. Il romanzo, a questo punto, vira sul thriller, con tensioni lesbiche calibrate e psicologismi ben sorretti. Nell’insieme, una buona lettura che, per quanto mi riguarda, dopo “I giorni dell’abbandono”, esaurisce il capitolo Ferrante.