giovedì 10 dicembre 2015

Un affaire coniugale

Libro internazionale, composto per essere tradotto in una ventina di lingue. Ambientato a Parigi, sullo sfondo della cultura borghese par excellence, e con un sottotetto per scenario; pomeriggi al Café Charbon e concerti notturni di gruppi di nicchia, alcool e hashish in abbondanza, pochissimo sesso. Non a caso è l’epitaffio di un matrimonio: la donna, masochista per vocazione, paga il fio della maternità; l’uomo, immaturo e fallocentrico, scopre il ruolo genitoriale nel momento in cui smette quello di sposo inadempiente (avaro, superficiale, narcisista, segaiolo, omosessuale latente). C’è uno smaccato schieramento, bacchettone nonostante gli sforzi. Si aspetta il processo definitivo assistendo a un’istruttoria un po’ viziata, senza argomenti di rilievo contro la protagonista – che reclama, più che altro, il mancato senso di responsabilità di suo marito (una macchietta), e non accenna agli effetti deleteri dell’eroica missione-mamma. I limiti della mascolinità sono sviscerati a puntino: abbiamo il colpevole, insomma, mentre la vicenda sviluppa una capziosa ambiguità fra le parti di vittima e carnefice, perché è fin troppo evidente che a sbagliare è sempre e soltanto “lui”. Un romanzo che vendica, un po’ in ritardo, secoli di soprusi e maschilismo, ma non dà il minimo contributo al tema della differenza di natura, se non addirittura di “specie”, tra maschio e femmina.

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