giovedì 12 maggio 2016

LO STRANIERO di Luchino Visconti (1967)

Un processo penale che diventa morale in piena regola. Il Meursault di Camus, appresa la notizia della morte di sua madre, si presenta (all'ospizio e allo spettatore) senza tradire alcun sentimento di lutto. Rifiuta di vedere la salma, fuma in compagnia di un anziano inserviente, beve una ciotola di caffellatte, si appisola durante la veglia funebre. Esprime, più che altro, una vaga fiacchezza, una noia esasperata dalla calura algerina: Mastroianni suda e inzuppa camicia e giacca, si passa di continuo un fazzoletto sul collo, sbuffa e segue il corteo sotto il sole a picco, lungo sterrati polverosi, come a sbrigare una formalità. Visconti in questo frangente è abile a costruire un'atmosfera levantina, di vapore acqueo, smog, folla, insetti; a ogni passo si ode un crepitio, quasi a rimarcare l'erosione, il lento disfacimento della scena umana (la partecipazione, i sentimenti). Il senso di oppressione fisica, il continuo malessere a cui si reagisce con uno stordimento di sigarette, di vino bevuto un po' controvoglia, di cibi ingurgitati con astratta voracità, si placa nell'erotismo serale: una collega di ufficio abbordata in spiaggia, portata al cinema, baciata, condotta fino al letto di Meursault - dove spira, dalla finestra lasciata aperta, una leggera brezza pacificante, che giova ai corpi eccitati. Il gusto dell'esistenza è in questo respiro umorale, fra nausea e gemito, a ridosso di un confine labile, ambiguo, in cui dolore e piacere sembrano talvolta mescolarsi. In una simile accettazione del destino, passiva in apparenza, tutta fondata sulla percezione della materia, sulla deperibilità dell'organico, si scivola a poco a poco nell'indifferenza. Raymond, un vicino di casa, confida a Meursault i suoi guai con un arabo, fratello di una "fidanzata" che ha malmenato. Mastroianni si presta a scrivere una lettera di insulti che, tuttavia, susciti nella donna dei rimpianti, una nostalgia utile allo scopo dell'amico: attirala un'ultima volta, possederla, e picchiarla. La trappola funziona, c'è una rissa, a cui seguono nuovi pedinamenti e atteggiamenti intimidatori da parte dell'arabo. Sul finire di una giornata al mare, dopo una prima colluttazione in cui Raymond viene accoltellato, Meursault si ritrova solo e obnubilato sulla battigia. Ha con sé la pistola; un colpo di sole, un balenio sulla lama del coltello: spara, uccide il giovane arabo prima d'esserne aggredito. Quindi, è colpevole? I colloqui col giudice istruttore e il dibattimento in aula determinano il punto di vista filosofico di Meursault, cioè la morte come unico orizzonte in cui i valori spirituali, cattolici in primis, si appiattiscono nella menzogna del conformismo morale. La sola verità sono i sensi, e l'irripetibile esperienza dello stare al mondo; così, se ci fosse una vita dopo la morte, Meursault vorrebbe poter ricordare l'amante, la brezza sui loro amplessi, e la luce delle stelle. L'assassinio è stato una disgrazia, la sciocchezza di un istante - e non può esserci pentimento. Il forcing della Giustizia umana lo pretende ancor di più per la madre lasciata morire nell'ospizio; si reclama il rimorso, la Colpa che l'imputato non prova, perché - ormai - non avevano più niente da dirsi. Giudicato colpevole dagli uomini, indifferente al perdono di Dio, nella piena consapevolezza che morire a trent'anni o a sessanta, non cambia granché, sarà impiccato. Lo sguardo finale di Mastroianni è un addio perfetto, come la sua voce che legge Camus, e l'intera prova attoriale, che regge (insieme al romanzo) un'opera discontinua, con una regia che troppo spesso ricorre allo zoom e alla irrequietezza delle macchiette.

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