sabato 20 maggio 2017

IL MIO NOME E' ROSSO di O. Pamuk

Dopo l’inizio eccellente, intorno alla trecentesima pagina comincia a delinearsi la sindrome Potëmkin, via di mezzo fra i malori di Stendhal e gli attaccamenti masochistici di Stoccolma. Però val la pena di insistere, perché il romanzo è ambizioso, ricco e malinconico. Consente anche di farsi un’idea della visione musulmana dell’arte, della morale e di quanto ne consegue in termini politici (teocrazia). L’aspetto più interessante è lo spegnersi di una tradizione in cui, attraverso la miniatura, si aggirava il divieto della rappresentazione. Questi disegni, a corredo dei testi, non avevano un valore indipendente, ma scortavano il sogno arabo che, di fatto, assurgeva ai “ricordi” di Allah. L’impianto canonico ribadiva che l’immagine miniata, a differenza di ciò che avveniva nell’arte europea, non pretendesse di competere con la Creazione divina: era una specie di schema oggettivo, stilizzato, in cui la guerra, per esempio, si realizzava raffigurando i due eserciti schierati in file ordinate, e non in un mescolamento realistico di soldati, armi e cavalli. Questo tenace manierismo che trattiene l’immagine in una volontaria semplificazione, si scontra presto con la tendenza a personalizzare il disegno, a “firmarlo”. Lo stile, in tal senso, è visto come un difetto del miniaturista, una deviazione rispetto al sentiero aperto dagli antichi maestri. Il lettore occidentale non può che interpretare questo processo storico (di affrancamento, o ribellione) come una genesi dell’ego – la risposta umana (luciferina) all’appiattimento devoto e all’uniforme astrazione che imporrebbe di fermare il Tempo, di costringere gli uomini, tutti uguali, nell’abbraccio eterno di Allah. Il rifiuto di qualsiasi sviluppo confligge, dunque, con il desiderio di evolversi che passa anche per l’imitazione dei maestri veneziani, formidabili ritrattisti, che adottano l’ombreggiatura e la prospettiva. Il romanzo racconta, appunto, la realizzazione di un libro segreto prospettico, in cui al centro figuri il Sultano (l’uomo), e non più Allah. Fin qui avremmo un magnifico saggio in cui sono riportate leggende persiane, miti, scene d’amore e di battaglia poste a fondamento dell’Impero ottomano, e a celebrarne il Califfo. Ma la forza narrativa della vicenda ne risente un po’, perché la scrittura di Pamuk (lo stile) a tratti non ha la forza necessaria, sconfinando in una prosa da catalogo d’antiquariato e nella retorica estetizzante di un ricettario da suq: se ne ricavano, sì, atmosfere, ma il giallo scolora, si perde, al punto che verso la metà del libro non si ha più questo spasmodico interesse a scoprire l’assassino. È senz’altro un “difetto” nella costruzione dell’opera – che poteva mantenersi più alta e intensa, condensandosi, dando più rilievo e incisività alle relazioni fra i personaggi: troppi e, in definitiva, troppo simili. Apprezzabile, tuttavia, che siano impastati nella menzogna, e nel rosso – il colore Verità dell’amore e del sangue.

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