martedì 22 marzo 2016

Sensi

Pellicola del 1986, risente (con relativa innocenza) della pacchianeria dell’epoca, anzitutto nei costumi e nelle acconciature femminili. Si apre con un postcoitum londinese, lei (una delle tante) che si alza per andare via - non prima di essersi stupita perché Gabriele Lavia non ride mai, e solo dopo aver addentato una mela verde; lui che, per tutta risposta, si accende una sigaretta. Questa (tabacco e venere) è la vera dorsale di un’opera in cui si fuma tantissimo. Non mancano grandi occhiali scuri da rockstar malinconica e un gusto letterario, quasi enigmistico, per la mezza frase: il killer solitario, condannato a morte dai suoi committenti. Gabriele Lavia, infatti, butta nella tazza del water un importante documento con una lista di nomi che, d’altronde, ha ben memorizzata. Poi chiama un taxi. Ma il tassista è un sicario, e lui gli spara a bruciapelo salendo in macchina. Si dirige all’aeroporto e s’imbarca per Roma, dove prenderà alloggio in un bordello tenuto da una giovane matrona che lo ama da sempre, ma che ha ormai rinunciato a pretenderlo per sé e, addirittura, gli serve le migliori professioniste a libro paga. Qui entra in scena Monica Guerritore, una donna ricchissima con la vocazione per lo sporco (si prostituisce per un bisogno che, se non è materiale, a rigor di logica è spirituale). Fanno l’amore, ma stavolta “è diverso”. Lei, dopo, va in bagno con una certa trepidazione. Gabriele Lavia sta fumando, però sente dei mugolii; di soppiatto (spento anzitempo il mozzicone) la raggiunge e la sorprende, in posa sul bordo della vasca, mentre si dà ancora piacere con sofferte contorsioni. Lui, fino a quel momento refrattario ai sentimenti, capitola. E lo mette subito in chiaro con la matrona innamorata/masochista: “Voglio rivederla”. Ne segue una liaison patinata con alcune scene bollenti a cui, in ogni caso, è stato messo il coperchio. C’è una certa estetizzazione del sesso – Gabriele Lavia, per esempio, accarezza il corpo della Guerritore con una pallottola che ha un’esplosività simbolica non da poco. Tuttavia, non mancano ambiguità. La incontra per caso, di notte, sul Lungotevere. Vorrebbe possederla lì stesso, tra i rifiuti della Roma di Craxi, ma lei sta aspettando il marito, un po’ come se fosse un cliente. Questi (il marito) arriva poco dopo: anziano, stempiato, bisunto, con un sovrappeso da Prima Repubblica. C’è un siparietto di complicità adultera (lei spiega d’aver conosciuto Gabriele Lavia da un antiquario); il marito cornuto consapevole sta al gioco, invita il Terzo Incomodo a cena e, in un ristorante con terrazza, tiene un lungo discorso minatorio sull’infedeltà, e sulla propria determinazione a uccidere chiunque tenti di soffiargli la moglie. Gabriele Lavia è un killer e non batte ciglio. Spiega di essere un eliminatore di topi, una sorta di ingegnere della derattizzazione urbana (fragorose risate sul crescendo di tensione psicologica). Il giorno dopo si ricomincia con un discreto numero di amplessi e sigarette. È un gioco pericolosissimo. La Guerritore cerca di sottrarsi, ma è tutta una trappola: scopriamo che è stata assoldata per eliminare Gabriele Lavia; e il falso marito è uno dei mandanti. Lei, infatti, lo riceve infilandosi le mutande dopo l’ennesimo convegno amoroso con l’amante condannato; e ostenta sicurezza: “Ce l’ho in pugno”. Sì, il traditore è ai suoi piedi; ma anche la Guerritore comincia a vacillare. È tempo di farsi consegnare la lista coi nomi (non sanno ancora che è stato fatta a pezzi e buttata in un water di Londra), e di farlo fuori. L’amore, tuttavia, si sta insinuando, poco a poco, in questa relazione morbosa fondata sull’inganno. Gabriele Lavia sa di avere i giorni contati, lascia il bordello per non mettere a rischio la vita della matrona sinceramente preoccupata per lui (Gabry la definisce, con affetto, “la mia puttana preferita”), e si rifugia in un appartamento con una bizzarra carta da parati in cui sono raffigurate enormi pistole. Proprio qui si verifica un rapporto sessuale metafisico, con le ombre di Lavia e della Guerritore che si compenetrano sullo sfondo delle armi stampate. Nelle varie fasi di questa coreografia dell’umbratile, lascia un po’ perplessi la mancanza, fra le sagome danzanti, di un segmento che le unisca, e che renderebbe plausibile questo ingranaggio anatomico. È, insomma, un amore evirato, platonico in senso eminente (di ombre, cioè, sullo schermo della caverna-arsenale). I due protagonisti, disperati, sembrano orientati a condividere una sorte infausta. Ma Gabriele Lavia non può permetterlo: cerca di farsi odiare, diventa sarcastico, schiaffeggia senza motivo la Guerritore, poi si siede al pianoforte e suona in un improvviso slancio di romanticismo (alla Goethe). Ma non è un buon Werther, ci ricasca, porta fuori la Guerritore, vanno insieme a cavallo e progettano la fuga in Brasile (in aereo). Lui perde di lucidità: “Forse si dimenticheranno di me”. Lei va in un’agenzia di viaggi e compra i biglietti per Rio de Janeiro. Il falso marito la bracca, apre la borsetta e dà sfogo a sospetti ormai più che legittimi. La Guerritore però nega tutto, sostiene di dover assecondare Gabriele Lavia nei suoi deliqui da luna di miele. Ma l’uomo del Pentapartito, ora insieme a un sottosegretario volgare, le comunica la necessità di procedere con l’omicidio – un ordine che, per ragioni un po’ oscure, si è rimandato fin troppo (già il tassista londinese non sembrava così disposto a temporeggiare). Ne consegue l’ultimo appuntamento fra Monica e Gabriele: ecco, squillerà il telefono, e lei dovrà sparare al suo amore; poi accenderà e spengerà la luce tre volte: un segnale per i due uomini della Prima Repubblica che saliranno nell’appartamento e predisporranno lo smaltimento del cadavere. Colpo di scena finale. Ho visto il film in piena insonnia: non garantisco sulla fedeltà della “sinossi”.

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