giovedì 19 febbraio 2015

Paolo il caldo

È un libro sincero in cui l’acutezza di Brancati non si cela dietro intenti parodistici, ma penetra nella condizione del “masculo” per sprofondare nell’idiozia del suo chiodo fisso. L’impianto filosofico (un determinismo dell’appagamento, rubizzo e iperteso) è affidato all’epopea baronale dei Castorini, la cui voracità erotizza e fotte, anche a tavola. Paolo emerge, sbilenco, come una sorta di monumento funebre che reca in mano la torcia fallica della famiglia, e ne segna il declino per una sorta di autocoscienza. Solo suo padre, l’esangue Michele, aveva presentito il tragico epilogo di una genia ingorda, ottenebrata, che, insieme al godimento, reitera l’impossibilità d’essere felice. C’è un distinguo fra sensualità e lussuria, e il romanzo la marca attraverso una vicenda barocca di continui inseguimenti fra il disegno della fantasia sessuale e la sua attuazione. Tutti i moti ascendenti dello spirito sono così disgregati dalla compulsione “bassa”, che precipita nutrendosi delle scorie prodotte. È questo il richiamo al Diavolo, o alla nevrosi, laddove il piacere non corrisponde agli istinti, ma all’abbrutimento; laddove il riscatto è morale, e anelante una specie di mistica geograficamente connotata (il Sud dei santi), una specie di ebetaggine rovesciata, casta. Sarebbe stato il capolavoro di Brancati, se non fosse intervenuta la morte, a sigillo. Ma è un romanzo che ha comunque ispirato moltissimo, perché mette davanti allo specchio gli struggimenti di tanti artisti che, né più né meno, hanno amato la Donna, senza poter essere all’altezza del loro stesso amore.

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