martedì 25 ottobre 2016

DALL'ELLADE A BISANZIO di A. Arbasino

Non è il libro della nostra vita; bisogna leggerlo avendo Google vicino, così si apprenderà senz'altro qualcosa. Aneddotica da salotto letterario, anzitutto, ma snobbando il salotto in sé, e anche i suoi ospiti. Da qui, la vaga antipatia riscossa qua e là da Arbasino - pur sempre uno che già nel 1960, trentenne, molla Roma alle Olimpiadi e se ne va in Grecia con gli amici. Il suo umorismo da dandy a tratti è odioso: vi riverberano (esageriamo, tanto non si offende) matinée di sciacallaggio nozionistico fra teatranti romani e professori, lunghi pomeriggi di ozio regolamentato da un istitutore, e magari la lampada Gallè sui tomi antichi imprestati dal cardinale amico di famiglia. Insomma, se uno brama lo scrittore che viene dal basso, quello che sfila la tuta da metalmeccanico e, dopo una bella doccia, siede al suo tavolo per riscrivere "Cronache di poveri amanti" senza punteggiatura, deve subito buttare via questo libro. Tutto sommato può farlo anche chi crede nelle gerarchie dello spirito e negli scrittori in scia Zarathustra. Qui non si rischia l'abbaglio del genio, ma al più una bella sghignazzata, all'incirca una ogni tredici o quattordici pagine (forse troppo poco per insistere?). In passato avevo letto con gusto "Specchio delle mie brame" e con divertimento via via decrescente "Super Eliogabalo". Su Wikipedia scopriamo che Arbasino si reputa uno scrittore espressionista. Mi sembra corretto, se consideriamo che il suo intero apparato compositivo si occupa di esteriorità: è un coreografo, uno stilista, un arredatore.

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