lunedì 9 marzo 2015

Le ricamatrici

È uno di quei piccoli lungometraggi a basso costo, “corti” all’europea per l’impianto sottotono, con personaggi introversi e campagna francese dappertutto. Poi, la regia al femminile, che per definizione gioca ancor di più al ribasso distribuendo timidezza a monosillabi, e scampoli di una fraseologia da cui si evincono (approssimati per eccesso) conflitti, sovrapposizioni, scambi di persona o transfert. La cinematografia europea si riconosce, da lontano, per l’ipersensibilità che muove i personaggi e per i loro movimenti psicologici, il cui spazio ideale è la saletta di un cinema d’essai. Il tocco femminile per il trattenersi, la pazienza (d’Arianna), lo sguardo distolto all’ultimo, i pudori, e qui addirittura l’ago e il filo, rappresentano al meglio quel senso di rammarico per essere nate donne. La protagonista ingravidata, che tenta di occultare il proprio stato interessante e cova di liberarsi del bambino, per giustificare l’ingrasso si appella a un tumore, già proponendo una chiara metafora (europea) di che cosa significhi la Vita. Nello scenario di una tristezza senza clamori, la giovane trova lavoro presso una nota ricamatrice, elegante Giocasta vestita di nero che, rimasta vedova di suo figlio, fallisce anche il suicidio, soccorsa dalla nuova apprendista. S’instaura quindi una complicità tra due madri, l’una che ha perduto il figlio e l’altra che lo aspetta, in una delicata riscoperta dell’emotività che infonde nel pubblico una certa fiducia nell’uomo (ma, soprattutto, nella donna). Regia di Éléonore Faucher. Con Lola Naymark, Ariana Ascaride, Marie Felix, Thomas Laroppe, Arthur Quehen, Jacky Berroyer. Titolo originale Brodeuses. Francia 2004

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