mercoledì 4 marzo 2015

La figlia oscura

Leda è una docente universitaria quarantottenne, separata, madre di due figlie che, ormai adulte, si trasferiscono in Canada. Rimasta sola, si scopre poco afflitta; anzi, in una certa misura, liberata. Parte per una villeggiatura col suo bagaglio di frustrazioni letterarie e sensi di colpa da emancipazione (in passato, nel tentativo di realizzarsi, aveva temporaneamente abbandonato le figlie). L’isolamento vacanziero innesca continui flashback (più o meno autocritici) e bilanci esistenziali. Molte pagine se ne vanno così, ripercorrendo una casistica di penosi affrancamenti: la donna volitiva che si ribella alla schiavitù della maternità; l’intellettuale fine che si discosta da una rozza discendenza femminile di napoletanità casalinghe; la studiosa di letteratura inglese che lotta invano contro le sguaiataggini della sua parlata, etc. Se ne ricava una biografia che cerca riscatto nell’affinamento culturale, e, anche, nel ripudio delle origini: la costruzione, pietra su pietra, di un’identità nuova è il destino dei “diversi”? Leda, per sua stessa ammissione, è un po’ snob. Durante la villeggiatura si scopre attratta da Nina, una giovane mamma che frequenta lo stabilimento balneare. Dall’ombrellone, la osserva giocare con la figlia Elena e una sinistra bambola che diventa presto simbolo condiviso di femminilità in embrione. Leda è affascinata dal placido erotismo di quella simbiosi, ma al tempo stesso dal potenziale eversivo, individualistico, di Nina, in cui rivede se stessa da giovane. Inizia quindi un gioco di proiezioni. La giovane mamma, infatti, è circondata da una chiassosa famiglia “allargata”, napoletani invadenti, socievoli sul filo di una violenta aggressività che manipola, gestisce, ricatta gli altri bagnanti (e, col nome di “Camorra”, il resto del mondo). Leda, che ha la fissa dell’incivilimento, ruba la bambola e inizia a coccolarsela e a “lavorarci” nella solitudine della sua villetta presa in affitto. Vuol ripulire quella creatura di gomma, sgravarla del limaccio che ha bevuto (uno sperma sabbioso, fecondante). In verità, non sa spiegarsi l’esatta ragione di un simile comportamento, ma lo porta avanti nonostante il dramma scatenato nella piccola Elena, che, senza la sua bambola, si dà in capricci interminabili, contesta la mamma, e mette a soqquadro l’intero paese. Il romanzo, a questo punto, vira sul thriller, con tensioni lesbiche calibrate e psicologismi ben sorretti. Nell’insieme, una buona lettura che, per quanto mi riguarda, dopo “I giorni dell’abbandono”, esaurisce il capitolo Ferrante.

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