giovedì 22 maggio 2014

Il labirinto

La schiavitù di cui parla Bataille col suo Labirinto è l’uomo ridotto a funzione, subordinato a una carriera elettiva che costituisca il suo Essere. Il fondamento ontologico coincide nella ragione sociale e l’investimento su se stessi è un conferimento al Tutto dell’Utile. In modo analogo a quanto fanno milioni di formiche rispetto all’industria formicaio. Partecipare a questo Intero significa in primis polarizzarsi nella specialità calandosi in una parte. Nietzsche aveva già piantato, per ammainarlo, il vessillo dell’Es sulla luna della Civilizzazione (un tetro allunaggio nell’ordine hegeliano, di Stato). Diventare cittadini equivale a limitarsi in quanto uomini, e Bataille stesso parla d’una svirilizzazione, laddove gli istinti di natura (compreso il Male) vengono sacrificati all’altare della moralità socratica (il Bene). L’istruttoria porta quindi in Grecia e al filosofo dell’oralità, che non vergò mai un’opera senza che quell’astenersi bastasse, vanificato dalla vulgata platonica, a dimenticare i suoi insegnamenti. Bataille è nietzscheano, certo, ma ben al di là dell’epigonismo. Riporta all’interno dell’Io, in una sorta di interiorizzazione dell’angoscia, i moti esterni dell’esser senza centro, senza patria, senza senso: senza Io, insomma, né Dio. Questo lutto è elaborato col mezzo erotico: laddove la sessualità è il campo di battaglia dell’angoscia, e l’amore una speranza d’integrità in cui riverbera il mito, l’arcaicità dell’incandescenza. Perciò si configura questo Eros che macera nei suoi angosciosi avvitamenti, e che poi scoppia in teatri di crudeltà, d’insulti amorosi e sputi, di riscatto e vendetta, d’impulso che strappa ogni remora e ritorna all’Intero – la gioia d’azzannarsi, l’ebbrezza di distruggersi.

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