domenica 27 dicembre 2015

Tarantino

Ho visto anche "Django Unchained" e "Kill Bill vol.1". Rispetto a "Bastardi senza gloria", il tema, o meglio, il pretesto formale, resta la vendetta; il grottesco, invece, è l'espediente che in una certa misura rassicura lo spettatore conferendo invulnerabilità al protagonista (il quale, infatti, agisce sullo sfondo di una giustizia epica). Tutto - duelli, massacri, dettagli cruenti - risulta alleggerito, rappresentato in un ambito giocoso, con riferimenti alle scalcagnate produzioni di genere. I limiti del verosimile sono oltrepassati in favore di una gustosa catarsi di amputazioni spumeggianti. Non si rimanda mai a un contesto storico, ma alla storia della fiction, o, tutt'al più, a una contaminazione del folk - compreso il cartoon. L'esito è elegante, ma - soprattutto - divertente.

mercoledì 23 dicembre 2015

Bastardi senza gloria

Il cinema assurto a fabbrica di sogni, e disinvolta ucronia. La rappresentazione della vendetta ebrea, con i pezzi grossi del Terzo Reich - Hitler compreso - crivellati e arsi nel crogiolo di una sala cinematografica (e quindi la fine della guerra anticipata al 1944), richiedeva coraggio e adeguati finanziamenti. Il coraggio a Quentin Tarantino non manca, e i soldi nemmeno. La sua opera è succulenta, con una visione della Storia da fumetto, tutta resa per eccessi e cortocircuiti di genere (western, poliziesco, cartoons). Da spettatori, si ghigna parecchio; ammaliati, in particolare, dai cattivi (cosa aggiungere sulla osannata performance di Cristopher Waltz?). I buoni, tuttavia, sono i bastardi senza gloria che collezionano scalpi nazisti: qui non c'è un Oskar Schindler, ma una sporca dozzina di allegri scuoiatori. Dialoghi, al solito, giocati sulla perifrasi, sulla metafora grottesca. Il filo narrativo ben teso anche nelle situazioni più strampalate (i tedeschi che giocano a "indovina chi sono?"); continue finte e controfinte sulla funzione narrativa dei personaggi, con montaggio elegantissimo, flashback e didascalie. Un pastiche memorabile.

martedì 22 dicembre 2015

Ci vorrebbe un amico

Ieri ho stentato a riconoscere N.N. per strada: lo vedo spesso su Facebook, e nella realtà fisica è una sorta di ologramma residuo. Credo di averlo interiorizzato con la sua perenne maschera da selfie, giacché ne pubblica tre o quattro a settimana (giovedì, venerdì, sabato e domenica, con sfondo mutante: l'amico di turno, la madre coinvolta all'aperitivo, il cane labrador, avventori di una birreria immortalati a caso, il muro di un privè con manifesto di DJ. Di persona non storce la bocca, non aggrotta la fronte, non ha - in definitiva - l'espressione asimmetrica e un po' gommosa di chi si è ritrovato nel bel mezzo di una festa. E' serio, quasi torvo. Continua a dimostrare ventidue anni, sebbene ne abbia quaranta; la stessa cresta umida di spuma, la stessa felpa con cappuccio, lo stesso tatuaggio sul collo. Però è solo. Questa condizione transitoria, mentre va a farsi una ricarica alla più vicina tabaccheria, lo ha letteralmente trasfigurato.

sabato 12 dicembre 2015

Revolutionary Road

La materia è tremenda: coppia di marito e moglie anni Cinquanta, provincia americana insabbiata in conformismo e vicini di casa sorridenti e infelici, squallidi bar serali e vagheggiamento d’espatrio a Parigi, con promozioni aziendali in vista e lento disfacimento della speranza di fuga; uova strapazzate a colazione e piatti da lavare nel tinello inondato di sole; figli che danno una mera parvenza di movimento. E poi scappatelle in ufficio per il marito in gabardine, incomunicabilità e progressiva rassegnazione allo stallo, alla noia, a più deludenti amplessi che, peraltro, si rivelano gravidi di conseguenze: April resta incinta per la terza volta; a Frank, invece, si apre un futuro da dirigente. Insomma, i due rinunciano ai loro progetti europei – e il fatto che restino solleva amici e parenti immerdati nella più disperata routine: chi ha il diritto di ribellarsi a una vita monotona e insensata? Il film, solido nell’impianto, ben scritto, è affidato all’innegabile capacità degli attori, nonostante Di Caprio. Bravissimo il matematico appena uscito di manicomio, l’unico che avesse compreso la follia necessaria alla coppia per salvarsi, o per tentare di farlo – l’unico, cioè, a essere vivo. Bello anche il personaggio di April, interpretato da una Kate Winslet nevrotica nell’esatta misura storica di una casalinga frustrata: non vuole abbassarsi a diventare “vittima degli eventi”, ma fallisce. Sarebbe bastato questo, e l’aborto fai-da-te, per suggellare l’opera con maggiore sobrietà. La sua morte, invece, con lo strascico degli ultimi cinque minuti, banalizzano un po’ – in facile tragedia – il dramma più complesso della sopravvivenza alla mancanza di senso.

giovedì 10 dicembre 2015

Un affaire coniugale

Libro internazionale, composto per essere tradotto in una ventina di lingue. Ambientato a Parigi, sullo sfondo della cultura borghese par excellence, e con un sottotetto per scenario; pomeriggi al Café Charbon e concerti notturni di gruppi di nicchia, alcool e hashish in abbondanza, pochissimo sesso. Non a caso è l’epitaffio di un matrimonio: la donna, masochista per vocazione, paga il fio della maternità; l’uomo, immaturo e fallocentrico, scopre il ruolo genitoriale nel momento in cui smette quello di sposo inadempiente (avaro, superficiale, narcisista, segaiolo, omosessuale latente). C’è uno smaccato schieramento, bacchettone nonostante gli sforzi. Si aspetta il processo definitivo assistendo a un’istruttoria un po’ viziata, senza argomenti di rilievo contro la protagonista – che reclama, più che altro, il mancato senso di responsabilità di suo marito (una macchietta), e non accenna agli effetti deleteri dell’eroica missione-mamma. I limiti della mascolinità sono sviscerati a puntino: abbiamo il colpevole, insomma, mentre la vicenda sviluppa una capziosa ambiguità fra le parti di vittima e carnefice, perché è fin troppo evidente che a sbagliare è sempre e soltanto “lui”. Un romanzo che vendica, un po’ in ritardo, secoli di soprusi e maschilismo, ma non dà il minimo contributo al tema della differenza di natura, se non addirittura di “specie”, tra maschio e femmina.

lunedì 7 dicembre 2015

Chiamatemi Francesco

L'età media in sala superava i settantacinque anni, con alcuni spettatori mutilati e altri che a fatica, in stampelle, raggiungevano il loro posto. Nella penombra, tra sibili e rantoli, mi è parso di vedere un macchinario per la respirazione artificiale già sistemato sotto una poltroncina. Quest'atmosfera da viaggio della speranza mi ha sorpreso. Mi aspettavo il solito filmone biografico, ma per tre quarti Lucchetti racconta la dittatura militare in Argentina. I desaparecidos, i pedinamenti, i pestaggi, il lancio dei corpi dall'aereo. I loschi discorsi di Videla, sottotitolati. Non mi sono annoiato, però intorno - in particolare durante il primo tempo - udivo un continuo soffocamento di sbadigli. Nella seconda parte, più breve, la sfumatura thriller ha impedito il crollo della cataratta. Tutti poi, in definitiva, aspettavano l'Habemus Papam, come se questo finale annunciatissimo potesse riservare delle sorprese. Io, in verità, ero interessato a un episodio della vita di Bergoglio, il Conclave del 2005 (quando il gesuita rifiutò la chiamata dirottando lo Spirito Santo su Ratzinger), che però è stato omesso.

mercoledì 2 dicembre 2015

Io sono leggenda (film)

È un’americanata che proprio non si molla (a Hollywood sono maestri del thriller, soprattutto con budget dai 150 milioni di dollari in su). Ambientato in una Manhattan post-apocalisse (il morbo di Krippin ha sterminato l’umanità), il protagonista è un militare sopravvissuto che, guarda caso, è anche virologo immune al flagello. Da ormai tre anni gira per la città col suo pastore tedesco, guida a duecento all’ora fra rottami, sterpaglie, stambecchi e leoni; parla ai manichini di una specie di Feltrinelli con scorta illimitata, si allena di brutto e, a tempo perso, manda avanti la sperimentazione sui ratti nel laboratorio sotterraneo. Tutta la prima parte, non senza l’aiuto dei flashback, spiega la catastrofe. Presto si apprende che i contagiati sono sensibili alla luce: durante il giorno vivono nel buio di una cloaca o nei visceri di un grattacielo, assiepati come pipistrelli. Di notte, invece, son dolori: escono in cerca di cibo, saltano emettendo versacci; sono mostri glabri e cannibali che fermi solo con un kalashnikov. Il virologo, non per niente, era un colonnello: non gli mancano armi e tecnologia. Nell’appartamento blindato da saracinesche e portelloni d’acciaio, ha disseminato una specie di arsenale. Pistole sui mobili, fucili nel portaombrelli, bombe a mano nei cassetti. Con preveggenza ha inoltre dotato il giardinetto prospiciente di un sistema di illuminazione d’emergenza, e sparso cariche di esplosivo. Eppure, un giorno cade in una trappola degli zombie; e il cane resta contagiato per salvarlo. Samantha (Sam) era un ricordo di famiglia, e l’eroe è costretto a sopprimerlo con le proprie mani (lo strangola a occhi lucidi). Il lutto è devastante. Per rappresaglia, il colonnello-virologo al tramonto prende il Suv e va in cerca di umanoidi da mettere sotto. Ne investe a sciami, ma poi qualcosa va storto, perde il controllo dell’auto, capotta, e per un pelo non è divorato dal branco rabbioso. Lo salva una tipa, Anna, che aveva intercettato i suoi appelli radio, e stava andando nel Vermont, dove, così dice, c'è una colonia di sopravvissuti. E qui comincia l’ultima avventura – l’epilogo della Leggenda... Da vedere.

venerdì 20 novembre 2015

Appuntamenti

Da quando ho lo smartphone accedo a Facebook con quotidiana regolarità, soprattutto al mattino. Sono un orologio.

giovedì 19 novembre 2015

Lowen

Invece, no. Dopo l'avvio interessantissimo sull'eziologia delle nevrosi, il libro si è perso in una configurazione della sessualità cosmica, con digressioni sull'innatismo tecnico dell'individuo "sano" e coiti spinti, in pratica, dall'afflato divino. La prudenza dell'autore non basta a salvarlo dal sospetto che dietro lo psicanalista si nasconda una specie di prete della Natura. Procedo con vaga nausea - un po' rassegnato allo sfacelo teorico a cui si va incontro nei testi che abusano della parola "cosmo". Ho sottovalutato i riferimenti sulla bioenergia letti su Wikipedia? Sì. Ritengo che l'uomo non potrà mai liberarsi di una certa angoscia, in qualità di individuo consapevole della propria mortalità. Un palliativo è la religione - compresa quella bioenergetica. Io non vedo molto di più. Ma, si capisce, sono un nevrotico, un soggetto "sensuale sofisticato", un "freddo" tutto concentrato sulla genitalità.

martedì 17 novembre 2015

Amore e orgasmo

Continuo la lettura, notevolissima, di "Amore e orgasmo" di Alexander Lowen: vi ho trovato la formulazione teorica di molti aspetti della sessualità che avevo descritto nei miei romanzi.

12 anni schiavo

In una certa misura (pur messo sul chi va là dalla caterva di premi), mi ha deluso. E' il tipico drammone con psicotici sparsi (Fassbender però eccelle) e martiri da monumento. Non indispone, ma non aggiunge né toglie. Di Mc Quenn avevo ammirato "Shame", a mio aviso più audace e complesso anche su un piano formale. Al di là dei tragici contenuti storici, lo schiavismo è un tema "comodo", tanto più se si percorrono strade narrativo-psicologiche già battute. In questo film accade; anzi, direi che vederlo è stato una specie di deja-vu lungo 139 minuti. L'immedesimazione nella vittima, ormai, è un binario morto - comunque redditizio. Non a caso si continuano a girarae film sull'Olocausto. Il pubblico ha un gusto dell'ecatombe un po' astratto. Sarebbe interessante organizzare delle deportazioni fuori dai cinema.

venerdì 6 novembre 2015

Il cigno nero

Non mi è dispiaciuto, nonostante gli effetti speciali inadeguati. Rappresentare la distorsione allucinatoria di una crisi schizofrenica era, sì, difficile, ma il collo di Mila Kunis che si allunga (modello Tiramolla) sconfina nel grottesco. Non dubito che si potessero evitare simili goffaggini - insomma, strangolarla senza farci ridere. L'insieme, comunque, fila. La Portman sottopeso, debilitata Nina Regina dei Cigni, è "perfetta"; dà sfumature da anima bella alla sua ballerina coi piedi martoriati dallo stare in punta. La maniacalità degli esercizi, l'ossessione tecnica, quel delirio tipicamente russo, da Teatro Bolshoi (un posto dove, in effetti, non mancano gli assassini), è ben trapiantato a New York, con un direttore artistico (Vincent Cassel) che per tirare fuori il cigno nero dalla purezza bianca (e frigida) di Nina, la invita a masturbarsi. Il passaggio intermedio, infatti, è il rosso della carnalità. Una specie di preliminare che innesca manie di possesso, gelosia e, finalmente, paranoia. La rivalità con la disinibita Kunis (il sesso a base di alcol e pasticche) è strumentale per la scoperta di un mondo più sanguigno, in cui le astrazioni figurate del balletto precipitano negli istinti di una coreografia da improvvisare al momento. Il dualismo è visto in termini di proiezione narcisista: l'odio per la Kunis è odio per se stessa e, al contempo, amore, desiderio di aversi. Il climax, non a caso, è anticipato da una scena lesbica (immaginaria) fra le due ragazze. Su tutto il palcoscenico del disturbo psichiatrico c'è lo spettro della madre di Nina, aspirante pittrice che scarabocchia mostruosi ritratti della figlia. Una madre sorvegliante squilibrata, che assilla e coccola in un subissamento di apprensioni e pupazzetti rosa. Il rifiuto di questa dimensione infantile soffocata dai peluches è ben rappresentato quando Nina li getta in massa nella spazzatura - un caso esemplare di lucida follia che la conduce alla Prima in uno stato "pericolante". Va in scena lo stesso e si vive, in parallelo, il suo Lago dei cigni con terribili allucinazioni, soprattutto in camerino, dove ha nascosto il cadavere (immaginario) della Kunis. In realtà, il pezzo di specchio è conficcato nel suo ventre. Ma lei balla e vola lo stesso, perfetta, in una radicale identità col ruolo. Qui il film decodifica a un livello commerciale-divulgativo un principio artistico di base: il vero artista non recita, è.

martedì 3 novembre 2015

Io che amo solo te

Ieri rentrèe al cinema all’insegna della Puglia alla moda, con Polignano a picco, divi più o meno autoctoni, maestrale, grotte e ulivi millenari (mancano un po’ di trulli, in verità, e i Negramaro). Il film è una soap romantica ben lanciata con la storia del ballo a mo’ di Gattopardo. È così brutto che anche un interprete onesto come Placido a tratti si abbandona a smorfie crucciate – di pentimento, forse, per avere accettato la parte.

martedì 27 ottobre 2015

Alto tradimento

La fiction, per costituzione, nega se stessa: si regge cioè su un patto di credulità e di non belligeranza col fruitore - il che ha reso possibile, per esempio, la letteratura e il cinema, laddove ogni storia è percepita come se fosse vera. Il reality ha capovolto i termini della faccenda, nel senso che nega la fiction. La poetica dello sbraco quotidiano, spaccato di medietà anonima in cui tutti si riconoscono, permea numerosi network (si pensi a Real Time). Una mimesi agevolata verso la porta accanto, con luci che simulano l'assenza di faretti, makeup acqua e sapone e costumi acquistati, tanto per dire, all'Oviesse. Sulla scia dei panni sporchi lavati in tivù, ecco "Alta infedeltà", un format che mi ha davvero impressionato: storie di ordinari tradimenti raccontate dai protagonisti (attori), con simulazioni filmate (altri attori, in una sorta di fiction al quadrato). Noia coniugale, frustrazioni, sbocchi imprevisti ma prevedibilissimi con seduzioni un po' sciatte e brucianti voglie che divampano in macchina o in una camera d'albergo. Intrecci thriller di menzogne sostenute a faccia seria, cornuti sospettosi che non si fanno mazziare, indagini, vendette ineluttabili servite su un piatto abbastanza freddo. La realtà tanto sbandierata è, di fatto, un plot ripetitivo con uno standard psicologico sottoritmo, fra luogi e date in sovrimpressione a riprodurre un libidinoso documento (falso). Si assiste con curiosità, tanto per vedere non dove, ma COME, si va a finire...

sabato 24 ottobre 2015

Il numero Nove

Sto revisionando Elevato Quattro. Un romanzo senza eroi né eroine, ma con un po' di quei sentimenti che rendono i personaggi, e gli uomini, migliori. Al momento, fantasticare in termini editoriali, o ipotizzare una collocazione di mercato, sarebbe uno slancio peregrino, tanto più in considerazione delle logiche regionalistico-nazionali secondo cui un narratore sardo avrebbe da scrivere solo di Sardegna (onde affascinare i lettori del Continente con paesini fumiganti e trame che si complicano tra ruderi di fango, stazzi, e bestiame). Io, naturalmente, sono partito anche stavolta dalla sessualità, perché la considero il motore a scoppio di qualsiasi storia, e ho messo in discussione una serie di principi cardine, direi morali, con innocenza odiosissima (ormai è appurato: risulto antipatico a due lettori su tre). In questo Buen Retiro dell'autoreferenzialità obbligata, immagino il libro già trasposto al cinema. E' la vicenda di due borghesi illuminati: lui è Vincenzo, già pianista che si è autoridimensionato a tecnico del suono; libertino erotomane (il sesso ha sopravanzato la musica), scambista raffinato, snob. Lei è Giada, sua moglie, violoncellista con specializzazione in Bach - suona come Ophélie Gaillard, tutta mistica e oscenità barocche; sputtanata in lungo e in largo per la sua condotta privata, subisce da anni un gretto boicotaggio accademico. Poi, dopo un concerto a Santa Cecilia, l'ineluttabile successo: il famoso Maestro Aymerich, infatuato, la invita alle Suite di Istanbul, un concerto ecumenico da tenersi su una specie di Love Boat che naviga il Bosforo (tra Europa e Asia, l'incontro di civiltà, etc.). Giada e Vincenzo stanno quindi vicendo un momento felice. Frequentano, intanto, il sito di incontri "La stanza onnivora" con lo pseudonimo di "Ettore e Andromaca". Marcano stretto una certa Sweet Jane, colf che smaltisce frustrazioni in webcam. E sono a loro volta "pressati" da Sperelli, un aspirante regista schizofrenico che scrive sceneggiature a getto continuo. Il romanzo si articola nei quattro punti di vista, alternati, con interpolazioni di mail e chat tra i personaggi. Il gioco virtuale innesca una riedizione de "Le Relazioni pericolose", nel senso che Sperelli si farà carico di sedurre Sweet Jane e di servirla sul famoso piatto d'argento a Ettore e Andromaca. Ma gli sviluppi di questo menage, si capisce, porteranno i quattro personaggi da tutt'altra parte. Il film, dicevo. Per la parte di Vincenzo vorrei scritturare Javier Bardem - in una versione un po' bolsa, annoiata e perversa. Giada è Cate Blanchett (con chignon); eviterei la scontatissima Charlotte Gainsbourg, già ninfomane per Von Trier. Per Sperelli, Elio Germano. La sua prova in "La nostra vita", con la scena del funerale in cui canta "Anima fragile", è di una tale potenza che occorre metterlo alla prova in un ruolo quasi da commedia: con follie cinefile, deliri e goffaggini alla Woody Allen. Per Sweet Jane, fatico a trovare una trentenne con talento e riccioli in abbondanza. Forse Natalie Portman, tenuta a freno da un regista europeo e previa impalcatura di bigodini.

lunedì 5 ottobre 2015

Lancôme Trésor (Qui cammina sull'acqua)

Eau de parfum

Gli spot sono invariabilmente in francese o in inglese, senza sottotitoli e con voci femminili arrochite dalla droga, dall'alcol e/o dai postumi anchilosati di un'orgia con vista su Place de la Concorde. Possibile che tra i consumatori di eau de parfum ci siano tutti questi esperti di lingue? Dev'essere una convenzione internazionale. Ma, a onor del vero, alcuni "commercials" Lancome sono cortometraggi perfetti, con attrici belle, credibili e, talvolta, non completamente denutrite. Il bianco e nero si spreca, è chiaro, e vien subito voglia di trasferirsi a Parigi per incontrare Kate Winslet e trascinarla, senza secondi fini, in una brasserie. Tra i capolavori, uno con Ines Sastre che sembra arrangiato da Gustav Mahler in persona. https://www.youtube.com/watch?v=r9VzsTLsRKw

sabato 3 ottobre 2015

Il sognatore di navi

"Abdul Bashur, sognatore di navi", di Alvaro Mutis, è uno dei libri più divertenti che abbia letto negli ultimi anni. In autobus, per esempio, stentavo a reprimere il ghigno suscitato dalla lettura, e gli improvvisi sbotti di riso (ogni tanto mi accorgevo del biasimo e/o dell'allarme degli altri passeggeri). Ho finito per leggerlo di nascosto, dove potevo abbandonarmi, pagina dopo pagina, a un'ilarità lussuriosa e un po' maligna. E' un libro incentrato - cito - sulla furfanteria mediterranea, sugli aneddoti che si concatenano in romanzo. L'ombra di Borges è chiara: nell'aggettivazione lapidaria, ma in un contesto stilistico più verboso, con sprechi e cazzeggiamenti; negli stupori che, di fatto, ridicolizzano fenomeni comuni e banali; nell'erudizione bibliofila che tratta da giganti autori sconosciuti; nella descrizione fisica che insinua elementi psicologici, e viceversa. Borges ha fatto molti danni in Sud America, però il talento di Mutis è incontestabile, grande.

lunedì 21 settembre 2015

Un giorno questo dolore ti sarà utile

Ho molti dubbi su Peter Cameron, e anche sul progetto editoriale di Adelphi. Rispetto a "Quella sera dorata" la storia dell'adolescente in crisi sembra rappresentare un passo indietro, forse due. Non ci sono dubbi, invece, sull'episodio cruciale nella vita di questo scrittore: l'università - con la paura di iscriversi, e la tentazione di abbandonarla.

sabato 19 settembre 2015

La Svezia e i pomeriggi d'amore

Nel pomeriggio ho visto un film svedese su Canale 5, e non era di Ingmar Bergman. Ho notato che nei giorni di tedio in cui nessuno guarda la tv, intorno alle 14.30, ma talvolta anche in prima serata, parte il ciclo "Inga Lindstrom". Sono filmetti di 90 minuti circa, perlopiù ambientati nella provincia di Stoccolma, con prati verdi, animali al pascolo, ville col tetto spiovente. Sullo sfondo, mare piatto, ponti di ferro e battelli placidi. Il ciclo prevede dei personaggi-tipo, coppie mature e felici che fanno a gara per portarsi la colazione a letto, una ragazza confusa, un fidanzato col chiodo fisso dei soldi, un terzo incomodo, perlopiù un giovane medico condotto (oppure un aitante vedovo con prole) che rompe l'incantesimo della routine e, nell'arco di una settimana, si dichiara. Oggi, in più, c'era una scenografa dall'aria equivoca che tornava nella sua cittadina d'origine dopo venticinque anni: sospettava di avere un tumore al cervello e desiderava conoscere sua figlia (la fidanzata confusa) per morire in pace (l'aveva abbandonata in fasce per arricchirsi a Hollywood). In questi film c'è, si capisce, una prevalenza di attori biondi. I personaggi sono borghesi colti, commercianti intelligentissimi che aprono la libreria e poi si assentano per raccontare la loro vita in un caffè. Spessissimo ci sono di mezzo dei segreti, mantenuti con ineccepibile senso etico (bugie a fin di bene), anche perché la cittadina è piccola e i muri, in Svezia, hanno orecchie. E poi ci si incontra di continuo: al lago, all'uscita della libreria, in ospedale, su una stradina per jogging e stupri dietro la siepe. Perciò i rapporti sono improntati su una cordialità un po' nordica, da SS in vacanza. La tendenza è di affidare ai bruni i ruoli negativi - questa non è una regola, ma se nel copione ci fosse un usuraio ebreo avrebbe i capelli neri. Il lieto fine, comunque, è garantito: ci si sveglia benissimo verso alle 16, col fermo immagine di un bacio e i titoli di coda che scorrono.

giovedì 10 settembre 2015

Sangue dal cielo

In questo romanzo piove un po’ troppo. Si comincia a imbarcare acqua fin dalla prima pagina, e poi via a precipitazioni sparse, anche di una certa intensità. Ma è niente rispetto al diluvio lessicale che attinge dall’italiano, dal barbaricino, e da quell’ineluttabile mescolamento che troviamo nel “popolo”. In tanti scrittori contemporanei (tutti radicatissimi nella propria terra) c’è una nostalgia del pensiero rustico – ma filtrato, riorganizzato in termini editoriali fino alla parodia più o meno involontaria. Riprodurre l’ingenuità implica una prosopopea odiosa, cioè un complesso di superiorità da fini letterati (...), e l’esito – non di meno – è piuttosto goffo. In pochi, tuttavia, sembrano accorgersene. Questi libri contaminati, tra Arcadia e folclorismo, si vendono. Piovono fitti in libreria. Spesso si parla di “stile”, piuttosto che di moda. O di “poetica”, in luogo di operazione editoriale. Un’operazione scrupolosa, che si regge sulle specialità del posto con erudite concessioni al vocabolario alto, e a una fraseologia da ricamo industriale. Ma di cosa si sta parlando? Di un giallo sardo: omicidi, indagini, macchiette di provincia che vanno e vengono sullo schermo aristocratico del narratore Poeta. Concetti poveri che, in balia di una studiatissima prolissità, sembrano già qualcos’altro (filosofia?). Descrizioni minuziose, leccate, che lasciano sgomenti come un quadro iperrealista. E, ancora, similitudini dell’entroterra, metafore da agriturismo, etnografia velata di politica (non troppo, però). Consigliatissimo per capire lo stato della narrativa italiana.

mercoledì 9 settembre 2015

Amore amaro

Nell'insieme, ho trovato il racconto di Carlo Bernari brutto quanto il titolo, o quasi, e nonostante la biografia politica dell'autore (letta su Wikipedia), pieno di strascichi fascisti (talvolta consapevoli). Il protagonista Io narrante (tronfio anche quando fa autocritica) è un duce di tintoria che seduce una vedova leggera quanto la sua veletta; i dialoghi un po' da Carosello; lo stile letterario alto, con "effetto zeppa" in una donna di un metro e quaranta.

martedì 8 settembre 2015

Le relazioni pericolose

Ho rivisto "Le relazioni pericolose" a marzo, per caso, in seconda serata. Da allora ripenso spesso a questo capolavoro e alla formidabile prova attoriale di Glenn Close. Anche nella composizione di "Elevato quattro", che si originava come elaborazione del lutto, il film ha una parte decisiva. Questo stimolo profondo a indagare la psicologia per mezzo delle tensioni (più o meno affioranti) è una delle ragioni per cui amare il cinema.

lunedì 7 settembre 2015

Dangerous Liaisons - Glenn Close - The End

The city of your final destination

Quella sera dorata(Adelphi) è un romanzo sul mutamento di situazioni, sentimenti, prospettive di vita. La materia mutante è sempre lì, in vista, anche se non si riesce a metterla a fuoco o a fissarne i punti di viraggio: Cameron riporta lunghe conversazioni, pranzi, cene, merende, silenzi, passeggiate fra gli alberi, alludendo a uno scarto di “inesprimibilità” che orienta le scelte dei suoi personaggi, agiti dall’inconscio più che attori di una coscienza. È un romanzo di viaggi e addii, con una base malinconica che non degenera mai in facili struggimenti. Omar e Arden, Caroline e Adam, Pete e Deirdre hanno una buona caratterizzazione, e una chiara identità lessicale, il che è importantissimo per un’opera che si regge su dialoghi insistiti. Questo, al di là delle centinaia di “disse” e “rispose”, è un pregio, poiché la conversazione, sebbene fluida e piegata di continuo dall’ambiente circostante, non appare mai casuale o dispersiva. L'impianto narrativo è solido, e la lettura piacevolissima.

sabato 29 agosto 2015

venerdì 28 agosto 2015

Il quinto figlio

Harriet e David sono una coppia di semidisadattati con una visione della felicità piuttosto "fuori moda": nel pieno fermento libertario degli anni Sessanta, credono nella famiglia e anelano di mettere al mondo otto figli. Ostentano un tradizionalismo audace: comprano una villa a tre piani nella campagna inglese, con tanto di ipoteca, e il papà di David (un armatore miliardario) finisce per accollarsi le spese. Non c'è approvazione intorno ai giovani sposi, ma i loro slanci irresponsabili attirano la curiosità e la benevolenza un po' interessata del parentado: in breve tempo diventano il centro di una famiglia allargata, e la villa è subito meta di pellegrinaggio. La prima parte del romanzo mette in scena la realizzazione di un progetto morale e di vita, coi figli che si susseguono in un continuo viavai di gente per casa, e la felicità che dilaga smussando conflitti caratteriali e di classe. Gli stessi Harriet e David ne sono meravigliati: la notte, abbracciati, quasi si vergognano della loro esistenza gioiosa dove ogni sacrificio è premiato e ogni problema si risolve quasi da sé (soprattutto dopo che la madre di Harriet e un'amica vedova si sono trasferite alla villa per dare una mano). Per alcuni anni si verifica una sorta di appiattimento temporale dominato da un'euforica convivialità e da un'indifferenziata vacanza, mentre i due protagonisti insistono nel loro sogno privo di anticoncezionali. Finché non arriva la quinta gravidanza, cioè una quinta sfida alla sorte. Già l'anomala vitalità del feto è un tetro segnale. La storia qui sembra rivelare un andamento metaforico, col Male che, infine, presenta il conto. Dopo pochi mesi Harriet è distrutta, e si fa prendere dai nervi. Scaramucce, tensioni, incredulità fra gli invitati permanenti che a ogni buon conto la perdonano: è stanca, si capisce, partorisce a getto continuo, e non ne può più. Qualcuno, infatti, suggerisce una pausa. Lei è inquieta, va dal medico, che però la rassicura. Ma più che una gravidanza sta affrontando un calvario. Il bambino si contorce, scalcia di brutto, e Harriet non riesce più a dormire. All'ottavo mese dà alla luce un mostro giallognolo di cinque chilogrammi, con un viso strano e lo sguardo freddo che non intenerisce nessuno. Tutti, in sua presenza, avvertono ripugnanza, se non proprio terrore. Chi è Ben? O meglio, cos'è? Cresce duro, scostante, ottuso, senza apprendere nulla, sviluppando una forza erculea che sperimenta qua e là, strangolando prima un cane, poi un gatto. Non ci sono prove, ma i parenti si allontanano poco a poco. La villa si svuota. La famiglia stessa si disunisce: David ammette che quella creatura non può essere "suo figlio", e teme per gli altri bambini - i quali, istintivamente, hanno già scartato il povero Ben. Il quinto figlio è allora spedito in una specie di Cottolengo inglese, costretto in una camicia di forza nell'attesa che tolga il disturbo fra gli escrementi. Ma Harriet (il fatale amore materno) non resiste, si fa cinque ore di macchina per raggiungere l'istituto e prelevare il suo bambino. Questo fatalismo distruttivo, che manderà all'aria il progetto iniziale, è l'aspetto preminente della parte centrale dell'opera. E il personaggio della madre si erge ridimensionando tutti gli altri, un po' gretti e deludenti al suo cospetto. Il libro è bello, senza retorica, sebbene vi aleggi un Eterno Ritorno della barbarie, con espliciti riferimenti all'involuzione degli anni Ottanta e al proliferare della criminalità da baby-gang. La prosa è asciutta, con un narratore onnisciente che a tratti fa rimpiangere soluzioni narrative più "moderne".

martedì 25 agosto 2015

La cura del mare

Oggi mare, con tuffo curativo secondo il rimedio degli antichi. Tutti gli interpellati mi assicurano che funziona, anche in rete si ribadisce che il raffreddore da mare si combatte in spiaggia. Ho qualche dubbio: giovedì, dopo la gran terapia del Poetto, mi è salita la febbre. E oggi sono entrato in acqua con oscuri pensieri di ricovero e polmoniti fulminanti (sulla falsariga della vecchia sapienza smentita). Però ci tenevo a non saltare l'appuntamento, per le nipotine... La loro gioia è più di un riempitivo, e i progressi fonetici della piccola sollecitano il papà logopedista che è in me. Vengono da un contesto famigliare insano, avvezze a sguardi in cui riverbera una follia morbosa e di gretto possesso, che non sa proteggerle né accompagnarle. Io credo basti poco per salvare un bambino: offrirgli un modello affettivo, delle modalità relazionali alternative, un sorriso e un incoraggiamento alla sua libertà d'espressione. Se un bambino vede lo spiraglio, la via di fuga, non appena gli sarà possibile fuggirà. Di contro, se non vede che miseria, finirà per diventare ciò che teme. Quindi ho fiducia. Direi quasi, per una volta, speranza.

domenica 23 agosto 2015

Il penoso attimo prima

Il cinema, quello d'autore in particolare, ha un problema col pene: i registi più audaci vorrebbero stanarlo ("sdoganarlo"), anche per un fatto di parità genitale col nudo femminile, ma quando si decidono a filmare il membro optano per una versione da ritirata, inoffensiva e, per così dire, apollinea. Nel grande schermo il pene è sempre piccolo. Bertolucci ci ha provato sia in "Novecento" (Robert De Niro e Gerard Depardieu manipolati dall'ambidestra Stefania Casini), che in "The dreamers", dove il muscolo in primo piano appare rilassatissimo, come appisolato nella poltroncina di un cinema d'essai. Qualcosa, insomma, non funziona; e il tentativo di emancipazione scade in una fiction depotenziata, laddove il realismo distoglie lo sguardo sempre un attimo prima che si verifichi l'erezione.

sabato 22 agosto 2015

Singin' in the rain

Oggi niente febbre. Ieri ho guardato Cantando sotto la pioggia. Una prima considerazione sui denti di Gene Kelly, abbacinanti: lo splendore di un sorriso che è già invito alla più scrupolosa igiene orale. Il film a tratti è un pastiche con morale della favola statunitense, cioè postmoderno e decrepito insieme. Non a caso, l'ottimismo di chi ce l'ha fatta (il divo Don Lockwood) non esclude i dubbi sulla propria identità artistica, e la malinconia del pagliaccio condannato a far ridere il suo pubblico. Una certa introspezione da diporto, tanto per drammatizzare il lieto fine annunciato e i milioni che, dal 1952, continuano a piovere. Più che altro, ho visto in Gene Kelly e Donanld O'Connor due superbi e affiatatissimi ballerini. L'agiografia ufficiale racconta che il primo girò la scena famosissima con la febbre a 39,4. Io a 37,5 barcollo e fatico a metter su il pentolino per il Vicks Tripla Azione. Ma, è chiaro, se vivessi a Hollywood smaltirei il virus ballando un tip tap.

giovedì 20 agosto 2015

La tonsilla destra, e facebook

Mi ha svegliato un forte mal di gola e il ricordo dello spray propoli tra i medicinali. Trovo sempre una buona scusa per non dormire, anche quando non c'è da scrivere. In verità avrei da correggere, revisionare, e spedire, ma ho rimandato i lavori di segreteria alla settimana prossima, tanto per rimettere su un po' di fiducia. E' una questione di energie spendibili, e al momento sono in riserva. Gente addentro al sistema mi ha rivelato che gli editori, ancor prima di leggere un inedito, considerano il numero di amici facebook del candidato, in modo da stimare una prima base di acquirenti. Mi sono messo subito una mano sulla coscienza, e ho iniziato una meticolosa escavazione col piccone e la pala del Trova amici. Tra i reperti rinvenuti, la maestra delle elementari, una Federica di cui mi innamorai a otto anni, la solita teppaglia rimossa, e una psicologa a cui ho preferito non inoltrare richieste di nessun tipo. In tre giorni sono passato da 105 a 146 amici, e già comincio a guardare con interesse le persone che "potrei conoscere".

martedì 4 agosto 2015

La pizza esistenziale

Sono uscito di casa per reagire a un senso di nausea spossatezza estraneità al mondo e spreco catastrofico di risorse. Anche per non lavare i piatti e perché non avevo alcuna intenzione di cucinare. In pizzeria, il galoppino palestrato che di solito mi vede in ciabatte aprirgli la porta dell'ascensore e allungargli una mancia simbolica (ma a lui i simboli piacciono), non credeva ai propri occhi. Ne ha subito approfittato per mostrare ai padroni (il pizzaiolo e l'uomo delle comande) quanto siamo in confidenza: si è lagnato di una fitta al cuore (gli anabolizzanti?), ha ammesso la dipendenza dall'esercizio fisico, nonostante la staticità del lavoro al manubrio etc. Tutto lì vicino alla cassa, dove c'è una piccola panca per l'attesa. Mi ci sono seduto, adagio, come per uno svenimento al rallentatore. Potevo comunque assistere alla preparazione della pizza, e lo psichismo serale si è dissolto nello spargimento di ingredienti, con la voce del galoppino fuori campo. Sì, mi è anche venuto un po' di appetito.

martedì 28 luglio 2015

Estate

Ho cominciato, così spero, l’esplorazione del Sinis. Zona pericolosa, di sciagure balneari: la costa occidentale è nota per gli annegamenti in riva. La puntata a S’acqua mala (Maimoni) ci ha impressionati, una litorale di quarzi, abbacinante, e il mare cobalto. A Cabras, il paese dello stagno (e dei muggini), gente torva, un’atmosfera piena di rancori e noia alcolizzata; bar squallidi, perlopiù. Si respira l’ostilità per il forestiero, la ripugnanza per il concetto stesso di turismo. Nel chiedere informazioni ho confuso una pasticceria con il forno del pane, e sono stato biasimato da ben tre signore di passaggio, neanche avessi preso il Louvre per Beaubourg. Nei dintorni, domina il caso, la natura un po’ sciatta, bassa, crepitante. A bordo strada, finocchietto selvatico a distese; filari di palme intatte (il punteruolo rosso qui non si è fermato). Più giù, invece, tappa alla marina di Arborea. La tranquillità di una spiaggia dall’età media elevatissima: arzilli ottantenni che prendono il sole, coniugi incartapecoriti, costumi d’epoca. C’è una colonia per disabili, ma il caseggiato è fatiscente, un po’ tetro, con panni stesi in un cortile spoglio, carrozzine abbandonate, equipaggiamento ortopedico dimenticato su un muretto. Il salmastro è corrotto da un vago odore di terra putrefatta. Non un luogo incantevole. Ma la zona è molto produttiva: vaccherie, barbabietola, coltivazioni di fragole e angurie. Ho voluto visitare il paese: un’incursione per il rettifilo della via Roma, tra costruzioni fasciste; poi un caffè in un bar oscuro da Saturday night, anche alle tre del pomeriggio.

domenica 28 giugno 2015

Tentativi

Ennesimo concorso risoltosi in nulla di fatto. Continuo a scrivere per inerzia.

mercoledì 24 giugno 2015

I fondelli dell'impulso gerarchico

Non credo esistano sfottò bonari. È una modalità odiosa, di affermazione e/o dominio. Gli animali lottano, gli uomini cagacazzo tentano di fare dell’ironia.

martedì 9 giugno 2015

Le nozze

Si è sposata mia sorella. Momenti indimenticabili: i preparativi. La casa padronale infiorettata, tutta ninnoli e vernici rosa e bianche, un po' da Lulù. Il bagno lezioso con residuo fecale nella tazza. Il boudoir col grande vestito appeso e celato da un lenzuolo, tipo monumento da inaugurare. C'è la truccatrice che opera su quattro donne (la sposa, mamma, e due testimoni), e, più in generale, un'intimità un po' ambigua. Ci mostriamo tutti in abiti da casa, qualcuno si lava i denti a porta aperta; un andirivieni scalzo in pantacollant tra giacche appese alle grucce e cravatte da annodare. Il gineceo felice elettrifica l'evento: è il cuore sacro della Donna profana a "fare" il matrimonio... Pochi maschi vigili. Mio fratello addetto ai panini; papà subito redarguito per i suoi chiassi egocentrici da gallo nel pollaio. E sparisce. Largo alla testimone adorabile con treccia da Lolita. Gliela sistema la parrucchiera matura che, per il momento, accantona rivalità e conflitti interiori. Io ho un abito carta da zucchero con farfallino blu; scarpe e cintura in grigio. Taglio casual sdrammatizzante. Sono un po' pentito. Arrivano parenti, un coagulo per il corteo della sposa. E il fotografo rompicoglioni che pensa d'essere Doisneau: pezzo d'uomo sudato con superdotazione di obbiettivi e metafore inadeguate. Fuori batte il sole. La chiesa è vicina e lo sposo già attende - si vocifera - in blu scuro. Partiamo strombazzanti verso l'orrenda basilica di calcestruzzo. Con ottima acustica, però. Il coro polifonico è una delizia, diretto da una solista che prende le note alte con una pertica di finezza espressiva. Immancabile Ave Maria. Di Schubert (non di Bolton, come sostenuto da taluni). Papà, divo, inforca subito gli occhiali hollywoodiani. Poi il prete, che ha qualche slancio di prolissità e, infine, legge la benedizione pontificia (tra i parenti dello sposo c'è un infiltrato del Vaticano, ma non sapremo mai chi). La cena a Casa Cortina, e le solite dinamiche sociali tra camerieri avari che negano il bis. Qualcuno s'è portato dietro l'I-pad per assistere, tra gli "evviva gli sposi!", alla finale di Champions.

martedì 10 marzo 2015

Anna Karenina (di Wright)

Perché girare un kolossal se non si crede più nella finzione? A che pro grandiose scenografie in divenire, con scorci di quinte e svelato spostamento d’attori che, per poco, non ripassano la parte? Perché ricordare di continuo al pubblico che nulla di quanto rappresentato è vero, anzi che tutto è falso come i soldi del Monopoli? Considerati i milioni, autentici, per realizzare l’ennesima, balorda, rilettura di Tolstoj, il disinvolto postmodernismo dell’Anna Karenina di Wright sembra arrivare con quarant’anni di ritardo: tempo utile per codificare i precetti delle avanguardie contro la “rappresentazione”, e farne una bella recita sfarzosa, con l’eroina paranoica che si butterà sotto un treno dopo aver fatto disperare tanto il marito (spelacchiato, cornificabile per fisionomia) quanto l’amante (un Vronski tutto baffi e puttane in vista).

lunedì 9 marzo 2015

Le ricamatrici

È uno di quei piccoli lungometraggi a basso costo, “corti” all’europea per l’impianto sottotono, con personaggi introversi e campagna francese dappertutto. Poi, la regia al femminile, che per definizione gioca ancor di più al ribasso distribuendo timidezza a monosillabi, e scampoli di una fraseologia da cui si evincono (approssimati per eccesso) conflitti, sovrapposizioni, scambi di persona o transfert. La cinematografia europea si riconosce, da lontano, per l’ipersensibilità che muove i personaggi e per i loro movimenti psicologici, il cui spazio ideale è la saletta di un cinema d’essai. Il tocco femminile per il trattenersi, la pazienza (d’Arianna), lo sguardo distolto all’ultimo, i pudori, e qui addirittura l’ago e il filo, rappresentano al meglio quel senso di rammarico per essere nate donne. La protagonista ingravidata, che tenta di occultare il proprio stato interessante e cova di liberarsi del bambino, per giustificare l’ingrasso si appella a un tumore, già proponendo una chiara metafora (europea) di che cosa significhi la Vita. Nello scenario di una tristezza senza clamori, la giovane trova lavoro presso una nota ricamatrice, elegante Giocasta vestita di nero che, rimasta vedova di suo figlio, fallisce anche il suicidio, soccorsa dalla nuova apprendista. S’instaura quindi una complicità tra due madri, l’una che ha perduto il figlio e l’altra che lo aspetta, in una delicata riscoperta dell’emotività che infonde nel pubblico una certa fiducia nell’uomo (ma, soprattutto, nella donna). Regia di Éléonore Faucher. Con Lola Naymark, Ariana Ascaride, Marie Felix, Thomas Laroppe, Arthur Quehen, Jacky Berroyer. Titolo originale Brodeuses. Francia 2004

mercoledì 4 marzo 2015

La figlia oscura

Leda è una docente universitaria quarantottenne, separata, madre di due figlie che, ormai adulte, si trasferiscono in Canada. Rimasta sola, si scopre poco afflitta; anzi, in una certa misura, liberata. Parte per una villeggiatura col suo bagaglio di frustrazioni letterarie e sensi di colpa da emancipazione (in passato, nel tentativo di realizzarsi, aveva temporaneamente abbandonato le figlie). L’isolamento vacanziero innesca continui flashback (più o meno autocritici) e bilanci esistenziali. Molte pagine se ne vanno così, ripercorrendo una casistica di penosi affrancamenti: la donna volitiva che si ribella alla schiavitù della maternità; l’intellettuale fine che si discosta da una rozza discendenza femminile di napoletanità casalinghe; la studiosa di letteratura inglese che lotta invano contro le sguaiataggini della sua parlata, etc. Se ne ricava una biografia che cerca riscatto nell’affinamento culturale, e, anche, nel ripudio delle origini: la costruzione, pietra su pietra, di un’identità nuova è il destino dei “diversi”? Leda, per sua stessa ammissione, è un po’ snob. Durante la villeggiatura si scopre attratta da Nina, una giovane mamma che frequenta lo stabilimento balneare. Dall’ombrellone, la osserva giocare con la figlia Elena e una sinistra bambola che diventa presto simbolo condiviso di femminilità in embrione. Leda è affascinata dal placido erotismo di quella simbiosi, ma al tempo stesso dal potenziale eversivo, individualistico, di Nina, in cui rivede se stessa da giovane. Inizia quindi un gioco di proiezioni. La giovane mamma, infatti, è circondata da una chiassosa famiglia “allargata”, napoletani invadenti, socievoli sul filo di una violenta aggressività che manipola, gestisce, ricatta gli altri bagnanti (e, col nome di “Camorra”, il resto del mondo). Leda, che ha la fissa dell’incivilimento, ruba la bambola e inizia a coccolarsela e a “lavorarci” nella solitudine della sua villetta presa in affitto. Vuol ripulire quella creatura di gomma, sgravarla del limaccio che ha bevuto (uno sperma sabbioso, fecondante). In verità, non sa spiegarsi l’esatta ragione di un simile comportamento, ma lo porta avanti nonostante il dramma scatenato nella piccola Elena, che, senza la sua bambola, si dà in capricci interminabili, contesta la mamma, e mette a soqquadro l’intero paese. Il romanzo, a questo punto, vira sul thriller, con tensioni lesbiche calibrate e psicologismi ben sorretti. Nell’insieme, una buona lettura che, per quanto mi riguarda, dopo “I giorni dell’abbandono”, esaurisce il capitolo Ferrante.

giovedì 19 febbraio 2015

L'amore infedele

Nuovo capitolo hollywoodiano dell'adulterio, e di una madre che cede, dopo trenta minuti di elucubrazioni e cambi di lingerie, al fascino di un commerciante di libri francese. Lui, terzo incomodo, si chiama Paul Martell, lo stesso cognome del cognac. Capello lungo morbido, taglio d'occhi felino, ventotto anni e una sorprendente prontezza erettile che lo fa muovere a proprio agio nel pianerottolo di casa, nei cessi di un baretto di SoHo e in un cinema, tra scomodi sedili pieghevoli. L'incontro fatale era avvenuto in piena Manhattan, in una bufera che la regia di Adrian Lyne aveva sottolineato con metaforici sbatacchiamenti di camera e turbinii di carta di giornale. Diane Lane era lì a lottare in tacchi a spillo, col proprio vestito volatile e la scorta di noia della classica vita perfetta. Il marito è un Richard Gere innamorato come il primo giorno, l'uomo concreto che lavora a perdifiato senza riuscire a svegliarsi dal sogno americano - o meglio, nel momento in cui si sveglia, è per incontrare un anziano investigatore privato e chiedergli di pedinare la moglie. Diane Lane troieggia e, in casa, inizia a perdere colpi - forse perché confida di recuperarne fuori col suo Martell. Ha la testa fra le nuvole, brucia il pollo per esempio, o spenge la luce dello studio mentre Richard Gere, dopocena, sta ultimando la contabilità. Lui (che si fa un culo così tutto il giorno) è preso da un dubbio: Connie, mi ami? Lei, spudorata, risponde di sì. Va tutto a schifìo - dopo un'oretta buona il marito cornificato, che oramai sa tutto, si presenta a casa di Martell per un chiarimento tra persone civili. Il Terzo incomodo è perplesso, ma gli offre da bere una vodka. Chiacchierano tra libri del Cinquecento, animali di gesso e suppellettili d'antiquariato. Gere crolla in pianto, e minaccia di vomitare lì su un tappeto da 40 mila dollari. Ma quando meno te lo aspetti, ha il raptus ineluttabile e schianta il cranio di Martell con una palla di cristallo. Lo spettatore è contento, e inizia a parteggiare col povero cervo-Gere, che avvolge il cadavere nel tappeto su cui, in extremis, non aveva vomitato, e che addirittura resta bloccato nell'ascensore. Riesce tuttavia a cavarsela e a deporre la salma involtino nell'apposito portabagagli del Mercedes nero trasformatosi in carro funebre. Nottetempo, poi, fa una capatina all'immondezzaio: sarà un novellino in fatto di massacri e occultamento di cadaveri, ma l'intuito lo soccorre. E' ancora innamorato come il primo giorno, e forse per questo non dice nulla a Diane Lane, che da par suo inizia a capire di aver sposato un assassino. Si presentano a casa, infatti, due detective. Richard Gere, che per un istante pensa di costituirsi, protegge la moglie e s'indigna all'interrogatorio un po' allusivo di Ollio, mentre la camera inquadra Stanlio che ha gia voglia di masturbarsi: Diane Lane è una quarantenne bionda molto saporita; e ostenta una contrizione che fa molto sangue tra i federali. I piedipiatti fanno gli gnorri, e questa, forse, è la vera denuncia, il sugo della storia: i coniugi, metafora di un'America con la coscienza sporca, possono così serbare il loro segreto per sempre, e progettare di trasferirsi in Messico, a convivere coi loro spettri, e a pescare.

Il pene quotidiano

Il romanzo analizza la dimensione femminile nel momento dell’abbandono: il “che cos’ha lei più di me”, l’isterismo sboccato, l’introspezione ossessiva, lo smarrimento, la graduale accettazione che scivola in disincanto, con l’ineluttabile condanna del maschio (egoista, poligamo) e dei sentimenti in generale (pantomima finalizzata al sesso). È un’operazione accorta, che ripercorre i luoghi comuni della rinuncia casalinga: la donna cede il passo alla madre, la carriera affonda nelle sabbie mobili della famiglia. Il tema, serio, non lascia mai questo sentiero già tracciato. Il che induce a facili immedesimazioni, in contesti quotidiani, comuni, dove le ambizioni giovanili e il culto del sex appeal s’infrangono contro incombenze domestiche indefettibili: la caffettiera sul fuoco, il cane da portare ai suoi bisogni, un figlio che vomita: tutto, in questa realtà del focolare, ha la precedenza sui sogni. Come può, una donna, non abbrutirsi? È il suo stesso sacrificio che la fa tramontare. E lui, il marito, il banalissimo Mario, cerca un nuovo inizio con una donna più giovane – solo per ripetere, forse, un ciclo erotico prestabilito, fatale. Il libro ha venduto, e se n’è tratto un film. C’è un buon dispiegamento del discorso, con una sporadica comparsa di trovate linguistiche e immagini “letterarie” in un insieme, tuttavia, modesto. Spiace la sproporzione tra l’appiattimento di certe dinamiche psicologiche, ridotte a mera “genitalità”, la sciatteria bisillabica di «fighe», «cazzi», «culi», e il rilievo prolisso, un po’ noioso, dato alla manualità delle faccende svolte “con la testa altrove”. È la distrazione improvvida della madre affranta che immagina suo marito «fottere» con l’amante... L’esito materialista, brutale, basso, è offerto saltando a piè pari un itinerario di elucubrazioni più elevate, a maggior ragione se si considera che la protagonista ha velleità da scrittrice.

Paolo il caldo

È un libro sincero in cui l’acutezza di Brancati non si cela dietro intenti parodistici, ma penetra nella condizione del “masculo” per sprofondare nell’idiozia del suo chiodo fisso. L’impianto filosofico (un determinismo dell’appagamento, rubizzo e iperteso) è affidato all’epopea baronale dei Castorini, la cui voracità erotizza e fotte, anche a tavola. Paolo emerge, sbilenco, come una sorta di monumento funebre che reca in mano la torcia fallica della famiglia, e ne segna il declino per una sorta di autocoscienza. Solo suo padre, l’esangue Michele, aveva presentito il tragico epilogo di una genia ingorda, ottenebrata, che, insieme al godimento, reitera l’impossibilità d’essere felice. C’è un distinguo fra sensualità e lussuria, e il romanzo la marca attraverso una vicenda barocca di continui inseguimenti fra il disegno della fantasia sessuale e la sua attuazione. Tutti i moti ascendenti dello spirito sono così disgregati dalla compulsione “bassa”, che precipita nutrendosi delle scorie prodotte. È questo il richiamo al Diavolo, o alla nevrosi, laddove il piacere non corrisponde agli istinti, ma all’abbrutimento; laddove il riscatto è morale, e anelante una specie di mistica geograficamente connotata (il Sud dei santi), una specie di ebetaggine rovesciata, casta. Sarebbe stato il capolavoro di Brancati, se non fosse intervenuta la morte, a sigillo. Ma è un romanzo che ha comunque ispirato moltissimo, perché mette davanti allo specchio gli struggimenti di tanti artisti che, né più né meno, hanno amato la Donna, senza poter essere all’altezza del loro stesso amore.

martedì 10 febbraio 2015

L'ordine

Ipotizziamo una società regolata da pudori naturali, con gente onesta e rispettosa che, la sera, dopo una giornata di lavoro, apre un buon libro e se lo legge senza covare loschi propositi di composizione.

Bozze per una lettera di presentazione

Ho scelto d’essere gentile, con tutto ciò che ne consegue. Per riportare un minimo d’ordine, nel pieno dell’adolescenza ho iniziato a scrivere, senza più smettere, accumulando (a oggi) una trentina di racconti, otto romanzi e almeno due tentativi prematuri di autobiografia. Eppure, forse per una questione di pudore, non ho mai desiderato la celebrità. È una contraddizione in termini? Cioran sosteneva che uno scrittore finisce col rimpiangere il periodo dell’anonimato. Io voglio credergli, per quanto mi dia molto da pensare che durante il suo anonimato abbia composto un libro intitolato “L’inconveniente di essere nati”.

giovedì 5 febbraio 2015

Crash

Il romanzo è ripetitivo, a tratti noioso, forzato nella dimostrazione della tesi che lo ispira: l’investimento (…) erotico sull’automobile come estensione più o meno metaforica del corpo (insieme di particolari anatomici), e come teatro elettivo dell’atto sessuale. Sarebbe stato più opportuno – credo – farci un saggio, anche per analizzare con modalità più oneste la disumanizzazione tecno-pornografica, la deriva gelida di un’idea fissa che, girando e avvitandosi su se stessa, dimentica l’Altro, collassa in una lugubre solitudine di progetti meccanici (incentrati, di fatto, sulla morte). Nella postfazione, la parte più interessante del libro, Ballard svela tutta la serietà dei suoi intenti – ma questo non basta a salvare l’opera, che vive di picchi isolati, perlopiù clinici, con relativi geyser di sangue, vomito, sperma e liquidi di raffreddamento. La psicopatologia, è vero, amplia il panorama umano e culturale, purché non ci si limiti a descrivere una mera casistica (ossessiva, inerte) e si affronti l’intera dinamica eziologica restando comunque dentro codici umani. Solo così, da lettori, possiamo risalire alle cause, ai patimenti “scatenanti”. Il romanzo è una forma di umanismo, anche se i mezzi per esprimerlo cambiano. Ma i personaggi di Crash somigliano a robot, o terminali erotici, e nessuno, nemmeno chi abbia questo tipo di sessualità, può davvero comprenderli.

martedì 27 gennaio 2015

Roth

Leggo molto: un processo di accumulazione con tempi brevi, per voracità col contagiri. Fretta perlopiù immotivata (ma si inquadra in una nevrosi più ampia, di furente assimilazione, di godimenti rubati). Mastico poco. Sputo un boccone che mi rassomiglia, e che svela tutto il cannibalismo della faccenda. Si addenta il corpo nudo della morte, lo si rivolta per fotterlo. E ha un buco di culo lucente, come un diamante. Quanto a Roth, "La cripta dei cappuccini" è inerziale rispetto alla "Marcia" - resta, d'altronde, l'inerzia di un capolavoro, con ripetizioni, eccipienti funerari, e immagini che stillano immediate dal Sacrocuore della Mitteleuropa. Si sente bene che, dietro, c'è un alcolizzato col suo filare di bottiglie. E' la gloria dei cocci. E ci fa camminare sui pezzi di vetro.

giovedì 8 gennaio 2015

Quattro per sempre

Questa pagina è dedicata a Giovanna, a una passeggiata tratta dai giorni felici, coi pini di Santa Margherita che diradano e Nora in lontananza. Ci mostrò un’agave fiorita: cento anni per uno stelo alto dieci metri. «E poi muore» disse stupita. Ma occorrerà anche più di un secolo affinché possa ricomparire quel fiore d’umanità che era Lei.