giovedì 19 febbraio 2015

L'amore infedele

Nuovo capitolo hollywoodiano dell'adulterio, e di una madre che cede, dopo trenta minuti di elucubrazioni e cambi di lingerie, al fascino di un commerciante di libri francese. Lui, terzo incomodo, si chiama Paul Martell, lo stesso cognome del cognac. Capello lungo morbido, taglio d'occhi felino, ventotto anni e una sorprendente prontezza erettile che lo fa muovere a proprio agio nel pianerottolo di casa, nei cessi di un baretto di SoHo e in un cinema, tra scomodi sedili pieghevoli. L'incontro fatale era avvenuto in piena Manhattan, in una bufera che la regia di Adrian Lyne aveva sottolineato con metaforici sbatacchiamenti di camera e turbinii di carta di giornale. Diane Lane era lì a lottare in tacchi a spillo, col proprio vestito volatile e la scorta di noia della classica vita perfetta. Il marito è un Richard Gere innamorato come il primo giorno, l'uomo concreto che lavora a perdifiato senza riuscire a svegliarsi dal sogno americano - o meglio, nel momento in cui si sveglia, è per incontrare un anziano investigatore privato e chiedergli di pedinare la moglie. Diane Lane troieggia e, in casa, inizia a perdere colpi - forse perché confida di recuperarne fuori col suo Martell. Ha la testa fra le nuvole, brucia il pollo per esempio, o spenge la luce dello studio mentre Richard Gere, dopocena, sta ultimando la contabilità. Lui (che si fa un culo così tutto il giorno) è preso da un dubbio: Connie, mi ami? Lei, spudorata, risponde di sì. Va tutto a schifìo - dopo un'oretta buona il marito cornificato, che oramai sa tutto, si presenta a casa di Martell per un chiarimento tra persone civili. Il Terzo incomodo è perplesso, ma gli offre da bere una vodka. Chiacchierano tra libri del Cinquecento, animali di gesso e suppellettili d'antiquariato. Gere crolla in pianto, e minaccia di vomitare lì su un tappeto da 40 mila dollari. Ma quando meno te lo aspetti, ha il raptus ineluttabile e schianta il cranio di Martell con una palla di cristallo. Lo spettatore è contento, e inizia a parteggiare col povero cervo-Gere, che avvolge il cadavere nel tappeto su cui, in extremis, non aveva vomitato, e che addirittura resta bloccato nell'ascensore. Riesce tuttavia a cavarsela e a deporre la salma involtino nell'apposito portabagagli del Mercedes nero trasformatosi in carro funebre. Nottetempo, poi, fa una capatina all'immondezzaio: sarà un novellino in fatto di massacri e occultamento di cadaveri, ma l'intuito lo soccorre. E' ancora innamorato come il primo giorno, e forse per questo non dice nulla a Diane Lane, che da par suo inizia a capire di aver sposato un assassino. Si presentano a casa, infatti, due detective. Richard Gere, che per un istante pensa di costituirsi, protegge la moglie e s'indigna all'interrogatorio un po' allusivo di Ollio, mentre la camera inquadra Stanlio che ha gia voglia di masturbarsi: Diane Lane è una quarantenne bionda molto saporita; e ostenta una contrizione che fa molto sangue tra i federali. I piedipiatti fanno gli gnorri, e questa, forse, è la vera denuncia, il sugo della storia: i coniugi, metafora di un'America con la coscienza sporca, possono così serbare il loro segreto per sempre, e progettare di trasferirsi in Messico, a convivere coi loro spettri, e a pescare.

Il pene quotidiano

Il romanzo analizza la dimensione femminile nel momento dell’abbandono: il “che cos’ha lei più di me”, l’isterismo sboccato, l’introspezione ossessiva, lo smarrimento, la graduale accettazione che scivola in disincanto, con l’ineluttabile condanna del maschio (egoista, poligamo) e dei sentimenti in generale (pantomima finalizzata al sesso). È un’operazione accorta, che ripercorre i luoghi comuni della rinuncia casalinga: la donna cede il passo alla madre, la carriera affonda nelle sabbie mobili della famiglia. Il tema, serio, non lascia mai questo sentiero già tracciato. Il che induce a facili immedesimazioni, in contesti quotidiani, comuni, dove le ambizioni giovanili e il culto del sex appeal s’infrangono contro incombenze domestiche indefettibili: la caffettiera sul fuoco, il cane da portare ai suoi bisogni, un figlio che vomita: tutto, in questa realtà del focolare, ha la precedenza sui sogni. Come può, una donna, non abbrutirsi? È il suo stesso sacrificio che la fa tramontare. E lui, il marito, il banalissimo Mario, cerca un nuovo inizio con una donna più giovane – solo per ripetere, forse, un ciclo erotico prestabilito, fatale. Il libro ha venduto, e se n’è tratto un film. C’è un buon dispiegamento del discorso, con una sporadica comparsa di trovate linguistiche e immagini “letterarie” in un insieme, tuttavia, modesto. Spiace la sproporzione tra l’appiattimento di certe dinamiche psicologiche, ridotte a mera “genitalità”, la sciatteria bisillabica di «fighe», «cazzi», «culi», e il rilievo prolisso, un po’ noioso, dato alla manualità delle faccende svolte “con la testa altrove”. È la distrazione improvvida della madre affranta che immagina suo marito «fottere» con l’amante... L’esito materialista, brutale, basso, è offerto saltando a piè pari un itinerario di elucubrazioni più elevate, a maggior ragione se si considera che la protagonista ha velleità da scrittrice.

Paolo il caldo

È un libro sincero in cui l’acutezza di Brancati non si cela dietro intenti parodistici, ma penetra nella condizione del “masculo” per sprofondare nell’idiozia del suo chiodo fisso. L’impianto filosofico (un determinismo dell’appagamento, rubizzo e iperteso) è affidato all’epopea baronale dei Castorini, la cui voracità erotizza e fotte, anche a tavola. Paolo emerge, sbilenco, come una sorta di monumento funebre che reca in mano la torcia fallica della famiglia, e ne segna il declino per una sorta di autocoscienza. Solo suo padre, l’esangue Michele, aveva presentito il tragico epilogo di una genia ingorda, ottenebrata, che, insieme al godimento, reitera l’impossibilità d’essere felice. C’è un distinguo fra sensualità e lussuria, e il romanzo la marca attraverso una vicenda barocca di continui inseguimenti fra il disegno della fantasia sessuale e la sua attuazione. Tutti i moti ascendenti dello spirito sono così disgregati dalla compulsione “bassa”, che precipita nutrendosi delle scorie prodotte. È questo il richiamo al Diavolo, o alla nevrosi, laddove il piacere non corrisponde agli istinti, ma all’abbrutimento; laddove il riscatto è morale, e anelante una specie di mistica geograficamente connotata (il Sud dei santi), una specie di ebetaggine rovesciata, casta. Sarebbe stato il capolavoro di Brancati, se non fosse intervenuta la morte, a sigillo. Ma è un romanzo che ha comunque ispirato moltissimo, perché mette davanti allo specchio gli struggimenti di tanti artisti che, né più né meno, hanno amato la Donna, senza poter essere all’altezza del loro stesso amore.

martedì 10 febbraio 2015

L'ordine

Ipotizziamo una società regolata da pudori naturali, con gente onesta e rispettosa che, la sera, dopo una giornata di lavoro, apre un buon libro e se lo legge senza covare loschi propositi di composizione.

Bozze per una lettera di presentazione

Ho scelto d’essere gentile, con tutto ciò che ne consegue. Per riportare un minimo d’ordine, nel pieno dell’adolescenza ho iniziato a scrivere, senza più smettere, accumulando (a oggi) una trentina di racconti, otto romanzi e almeno due tentativi prematuri di autobiografia. Eppure, forse per una questione di pudore, non ho mai desiderato la celebrità. È una contraddizione in termini? Cioran sosteneva che uno scrittore finisce col rimpiangere il periodo dell’anonimato. Io voglio credergli, per quanto mi dia molto da pensare che durante il suo anonimato abbia composto un libro intitolato “L’inconveniente di essere nati”.

giovedì 5 febbraio 2015

Crash

Il romanzo è ripetitivo, a tratti noioso, forzato nella dimostrazione della tesi che lo ispira: l’investimento (…) erotico sull’automobile come estensione più o meno metaforica del corpo (insieme di particolari anatomici), e come teatro elettivo dell’atto sessuale. Sarebbe stato più opportuno – credo – farci un saggio, anche per analizzare con modalità più oneste la disumanizzazione tecno-pornografica, la deriva gelida di un’idea fissa che, girando e avvitandosi su se stessa, dimentica l’Altro, collassa in una lugubre solitudine di progetti meccanici (incentrati, di fatto, sulla morte). Nella postfazione, la parte più interessante del libro, Ballard svela tutta la serietà dei suoi intenti – ma questo non basta a salvare l’opera, che vive di picchi isolati, perlopiù clinici, con relativi geyser di sangue, vomito, sperma e liquidi di raffreddamento. La psicopatologia, è vero, amplia il panorama umano e culturale, purché non ci si limiti a descrivere una mera casistica (ossessiva, inerte) e si affronti l’intera dinamica eziologica restando comunque dentro codici umani. Solo così, da lettori, possiamo risalire alle cause, ai patimenti “scatenanti”. Il romanzo è una forma di umanismo, anche se i mezzi per esprimerlo cambiano. Ma i personaggi di Crash somigliano a robot, o terminali erotici, e nessuno, nemmeno chi abbia questo tipo di sessualità, può davvero comprenderli.