domenica 27 dicembre 2015

Tarantino

Ho visto anche "Django Unchained" e "Kill Bill vol.1". Rispetto a "Bastardi senza gloria", il tema, o meglio, il pretesto formale, resta la vendetta; il grottesco, invece, è l'espediente che in una certa misura rassicura lo spettatore conferendo invulnerabilità al protagonista (il quale, infatti, agisce sullo sfondo di una giustizia epica). Tutto - duelli, massacri, dettagli cruenti - risulta alleggerito, rappresentato in un ambito giocoso, con riferimenti alle scalcagnate produzioni di genere. I limiti del verosimile sono oltrepassati in favore di una gustosa catarsi di amputazioni spumeggianti. Non si rimanda mai a un contesto storico, ma alla storia della fiction, o, tutt'al più, a una contaminazione del folk - compreso il cartoon. L'esito è elegante, ma - soprattutto - divertente.

mercoledì 23 dicembre 2015

Bastardi senza gloria

Il cinema assurto a fabbrica di sogni, e disinvolta ucronia. La rappresentazione della vendetta ebrea, con i pezzi grossi del Terzo Reich - Hitler compreso - crivellati e arsi nel crogiolo di una sala cinematografica (e quindi la fine della guerra anticipata al 1944), richiedeva coraggio e adeguati finanziamenti. Il coraggio a Quentin Tarantino non manca, e i soldi nemmeno. La sua opera è succulenta, con una visione della Storia da fumetto, tutta resa per eccessi e cortocircuiti di genere (western, poliziesco, cartoons). Da spettatori, si ghigna parecchio; ammaliati, in particolare, dai cattivi (cosa aggiungere sulla osannata performance di Cristopher Waltz?). I buoni, tuttavia, sono i bastardi senza gloria che collezionano scalpi nazisti: qui non c'è un Oskar Schindler, ma una sporca dozzina di allegri scuoiatori. Dialoghi, al solito, giocati sulla perifrasi, sulla metafora grottesca. Il filo narrativo ben teso anche nelle situazioni più strampalate (i tedeschi che giocano a "indovina chi sono?"); continue finte e controfinte sulla funzione narrativa dei personaggi, con montaggio elegantissimo, flashback e didascalie. Un pastiche memorabile.

martedì 22 dicembre 2015

Ci vorrebbe un amico

Ieri ho stentato a riconoscere N.N. per strada: lo vedo spesso su Facebook, e nella realtà fisica è una sorta di ologramma residuo. Credo di averlo interiorizzato con la sua perenne maschera da selfie, giacché ne pubblica tre o quattro a settimana (giovedì, venerdì, sabato e domenica, con sfondo mutante: l'amico di turno, la madre coinvolta all'aperitivo, il cane labrador, avventori di una birreria immortalati a caso, il muro di un privè con manifesto di DJ. Di persona non storce la bocca, non aggrotta la fronte, non ha - in definitiva - l'espressione asimmetrica e un po' gommosa di chi si è ritrovato nel bel mezzo di una festa. E' serio, quasi torvo. Continua a dimostrare ventidue anni, sebbene ne abbia quaranta; la stessa cresta umida di spuma, la stessa felpa con cappuccio, lo stesso tatuaggio sul collo. Però è solo. Questa condizione transitoria, mentre va a farsi una ricarica alla più vicina tabaccheria, lo ha letteralmente trasfigurato.

sabato 12 dicembre 2015

Revolutionary Road

La materia è tremenda: coppia di marito e moglie anni Cinquanta, provincia americana insabbiata in conformismo e vicini di casa sorridenti e infelici, squallidi bar serali e vagheggiamento d’espatrio a Parigi, con promozioni aziendali in vista e lento disfacimento della speranza di fuga; uova strapazzate a colazione e piatti da lavare nel tinello inondato di sole; figli che danno una mera parvenza di movimento. E poi scappatelle in ufficio per il marito in gabardine, incomunicabilità e progressiva rassegnazione allo stallo, alla noia, a più deludenti amplessi che, peraltro, si rivelano gravidi di conseguenze: April resta incinta per la terza volta; a Frank, invece, si apre un futuro da dirigente. Insomma, i due rinunciano ai loro progetti europei – e il fatto che restino solleva amici e parenti immerdati nella più disperata routine: chi ha il diritto di ribellarsi a una vita monotona e insensata? Il film, solido nell’impianto, ben scritto, è affidato all’innegabile capacità degli attori, nonostante Di Caprio. Bravissimo il matematico appena uscito di manicomio, l’unico che avesse compreso la follia necessaria alla coppia per salvarsi, o per tentare di farlo – l’unico, cioè, a essere vivo. Bello anche il personaggio di April, interpretato da una Kate Winslet nevrotica nell’esatta misura storica di una casalinga frustrata: non vuole abbassarsi a diventare “vittima degli eventi”, ma fallisce. Sarebbe bastato questo, e l’aborto fai-da-te, per suggellare l’opera con maggiore sobrietà. La sua morte, invece, con lo strascico degli ultimi cinque minuti, banalizzano un po’ – in facile tragedia – il dramma più complesso della sopravvivenza alla mancanza di senso.

giovedì 10 dicembre 2015

Un affaire coniugale

Libro internazionale, composto per essere tradotto in una ventina di lingue. Ambientato a Parigi, sullo sfondo della cultura borghese par excellence, e con un sottotetto per scenario; pomeriggi al Café Charbon e concerti notturni di gruppi di nicchia, alcool e hashish in abbondanza, pochissimo sesso. Non a caso è l’epitaffio di un matrimonio: la donna, masochista per vocazione, paga il fio della maternità; l’uomo, immaturo e fallocentrico, scopre il ruolo genitoriale nel momento in cui smette quello di sposo inadempiente (avaro, superficiale, narcisista, segaiolo, omosessuale latente). C’è uno smaccato schieramento, bacchettone nonostante gli sforzi. Si aspetta il processo definitivo assistendo a un’istruttoria un po’ viziata, senza argomenti di rilievo contro la protagonista – che reclama, più che altro, il mancato senso di responsabilità di suo marito (una macchietta), e non accenna agli effetti deleteri dell’eroica missione-mamma. I limiti della mascolinità sono sviscerati a puntino: abbiamo il colpevole, insomma, mentre la vicenda sviluppa una capziosa ambiguità fra le parti di vittima e carnefice, perché è fin troppo evidente che a sbagliare è sempre e soltanto “lui”. Un romanzo che vendica, un po’ in ritardo, secoli di soprusi e maschilismo, ma non dà il minimo contributo al tema della differenza di natura, se non addirittura di “specie”, tra maschio e femmina.

lunedì 7 dicembre 2015

Chiamatemi Francesco

L'età media in sala superava i settantacinque anni, con alcuni spettatori mutilati e altri che a fatica, in stampelle, raggiungevano il loro posto. Nella penombra, tra sibili e rantoli, mi è parso di vedere un macchinario per la respirazione artificiale già sistemato sotto una poltroncina. Quest'atmosfera da viaggio della speranza mi ha sorpreso. Mi aspettavo il solito filmone biografico, ma per tre quarti Lucchetti racconta la dittatura militare in Argentina. I desaparecidos, i pedinamenti, i pestaggi, il lancio dei corpi dall'aereo. I loschi discorsi di Videla, sottotitolati. Non mi sono annoiato, però intorno - in particolare durante il primo tempo - udivo un continuo soffocamento di sbadigli. Nella seconda parte, più breve, la sfumatura thriller ha impedito il crollo della cataratta. Tutti poi, in definitiva, aspettavano l'Habemus Papam, come se questo finale annunciatissimo potesse riservare delle sorprese. Io, in verità, ero interessato a un episodio della vita di Bergoglio, il Conclave del 2005 (quando il gesuita rifiutò la chiamata dirottando lo Spirito Santo su Ratzinger), che però è stato omesso.

mercoledì 2 dicembre 2015

Io sono leggenda (film)

È un’americanata che proprio non si molla (a Hollywood sono maestri del thriller, soprattutto con budget dai 150 milioni di dollari in su). Ambientato in una Manhattan post-apocalisse (il morbo di Krippin ha sterminato l’umanità), il protagonista è un militare sopravvissuto che, guarda caso, è anche virologo immune al flagello. Da ormai tre anni gira per la città col suo pastore tedesco, guida a duecento all’ora fra rottami, sterpaglie, stambecchi e leoni; parla ai manichini di una specie di Feltrinelli con scorta illimitata, si allena di brutto e, a tempo perso, manda avanti la sperimentazione sui ratti nel laboratorio sotterraneo. Tutta la prima parte, non senza l’aiuto dei flashback, spiega la catastrofe. Presto si apprende che i contagiati sono sensibili alla luce: durante il giorno vivono nel buio di una cloaca o nei visceri di un grattacielo, assiepati come pipistrelli. Di notte, invece, son dolori: escono in cerca di cibo, saltano emettendo versacci; sono mostri glabri e cannibali che fermi solo con un kalashnikov. Il virologo, non per niente, era un colonnello: non gli mancano armi e tecnologia. Nell’appartamento blindato da saracinesche e portelloni d’acciaio, ha disseminato una specie di arsenale. Pistole sui mobili, fucili nel portaombrelli, bombe a mano nei cassetti. Con preveggenza ha inoltre dotato il giardinetto prospiciente di un sistema di illuminazione d’emergenza, e sparso cariche di esplosivo. Eppure, un giorno cade in una trappola degli zombie; e il cane resta contagiato per salvarlo. Samantha (Sam) era un ricordo di famiglia, e l’eroe è costretto a sopprimerlo con le proprie mani (lo strangola a occhi lucidi). Il lutto è devastante. Per rappresaglia, il colonnello-virologo al tramonto prende il Suv e va in cerca di umanoidi da mettere sotto. Ne investe a sciami, ma poi qualcosa va storto, perde il controllo dell’auto, capotta, e per un pelo non è divorato dal branco rabbioso. Lo salva una tipa, Anna, che aveva intercettato i suoi appelli radio, e stava andando nel Vermont, dove, così dice, c'è una colonia di sopravvissuti. E qui comincia l’ultima avventura – l’epilogo della Leggenda... Da vedere.