giovedì 24 marzo 2016

La Vénus à la fourrure

Il pretesto narrativo è l'audizione per una piece su "Venere in Pelliccia". C'è un teatro e due soli personaggi: Thomas, il regista snervato da un'intera giornata di prove, e l'ultima candidata al ruolo di Wanda. La Seigner, sontuosa, è divisa in una schizofrenia fra lo stereotipo dell'attrice sgallettata e il rigore della virago erudita, che polemizza col testo di Sacher-Masoch e col regista stesso. Sembra incarnare, di fatto, la Venere crudele del romanzo, e bastano poche battute per comprenderlo: dopo le schermaglie iniziali, col racconto del rocambolesco viaggio in metropolitana, e con voluti strafalcioni per fuorviare Thomas (il tipico intellettuale frustrato), la donna tira fuori una voce gelida e imperiosa - e il regista si ritrova così, suo malgrado, nei panni di Severin. Ma non era questo il suo inconscio desiderio? Nel film, il gioco notissimo della finzione si avvale (anche) di una certa magia sonora. Quando i due fingono di bere il caffè, si avverte in lontananza il tintinnio dei cucchiaini, il vibrare in mano della tazzina; quando mimano la stipula del contratto, si ode flebile il fruscio della carta. L'incanto della rappresentazione - tout court - è nella fluidità dei ruoli fra vita e Teatro, e delle identità personali che si riveleranno intercambiabili. Per Wanda, non a caso, il rapporto fra la Venere e Severin è ambivalente e, a ben guardare, il dominato (che induce all'accordo scritto, che implora abusi, castighi, umiliazioni) è il vero dominatore, che riduce la donna a una sorta di oggetto "strumentale": è la sofferenza fisica a rendere possibile l'eccitazione sessuale di Severin. Allo stesso tempo, nell'infatuazione di Wanda per il greco Papadopulos, si cela l'omosessualità latente dello schiavo, che ambisce a una sorta di virilità per interposta persona. La Seigner è una sprovveduta che banalizza Sacher-Masoch in un porno psicologico, o una baccante del femminismo pronta a fare a pezzi Dioniso?

martedì 22 marzo 2016

Sensi

Pellicola del 1986, risente (con relativa innocenza) della pacchianeria dell’epoca, anzitutto nei costumi e nelle acconciature femminili. Si apre con un postcoitum londinese, lei (una delle tante) che si alza per andare via - non prima di essersi stupita perché Gabriele Lavia non ride mai, e solo dopo aver addentato una mela verde; lui che, per tutta risposta, si accende una sigaretta. Questa (tabacco e venere) è la vera dorsale di un’opera in cui si fuma tantissimo. Non mancano grandi occhiali scuri da rockstar malinconica e un gusto letterario, quasi enigmistico, per la mezza frase: il killer solitario, condannato a morte dai suoi committenti. Gabriele Lavia, infatti, butta nella tazza del water un importante documento con una lista di nomi che, d’altronde, ha ben memorizzata. Poi chiama un taxi. Ma il tassista è un sicario, e lui gli spara a bruciapelo salendo in macchina. Si dirige all’aeroporto e s’imbarca per Roma, dove prenderà alloggio in un bordello tenuto da una giovane matrona che lo ama da sempre, ma che ha ormai rinunciato a pretenderlo per sé e, addirittura, gli serve le migliori professioniste a libro paga. Qui entra in scena Monica Guerritore, una donna ricchissima con la vocazione per lo sporco (si prostituisce per un bisogno che, se non è materiale, a rigor di logica è spirituale). Fanno l’amore, ma stavolta “è diverso”. Lei, dopo, va in bagno con una certa trepidazione. Gabriele Lavia sta fumando, però sente dei mugolii; di soppiatto (spento anzitempo il mozzicone) la raggiunge e la sorprende, in posa sul bordo della vasca, mentre si dà ancora piacere con sofferte contorsioni. Lui, fino a quel momento refrattario ai sentimenti, capitola. E lo mette subito in chiaro con la matrona innamorata/masochista: “Voglio rivederla”. Ne segue una liaison patinata con alcune scene bollenti a cui, in ogni caso, è stato messo il coperchio. C’è una certa estetizzazione del sesso – Gabriele Lavia, per esempio, accarezza il corpo della Guerritore con una pallottola che ha un’esplosività simbolica non da poco. Tuttavia, non mancano ambiguità. La incontra per caso, di notte, sul Lungotevere. Vorrebbe possederla lì stesso, tra i rifiuti della Roma di Craxi, ma lei sta aspettando il marito, un po’ come se fosse un cliente. Questi (il marito) arriva poco dopo: anziano, stempiato, bisunto, con un sovrappeso da Prima Repubblica. C’è un siparietto di complicità adultera (lei spiega d’aver conosciuto Gabriele Lavia da un antiquario); il marito cornuto consapevole sta al gioco, invita il Terzo Incomodo a cena e, in un ristorante con terrazza, tiene un lungo discorso minatorio sull’infedeltà, e sulla propria determinazione a uccidere chiunque tenti di soffiargli la moglie. Gabriele Lavia è un killer e non batte ciglio. Spiega di essere un eliminatore di topi, una sorta di ingegnere della derattizzazione urbana (fragorose risate sul crescendo di tensione psicologica). Il giorno dopo si ricomincia con un discreto numero di amplessi e sigarette. È un gioco pericolosissimo. La Guerritore cerca di sottrarsi, ma è tutta una trappola: scopriamo che è stata assoldata per eliminare Gabriele Lavia; e il falso marito è uno dei mandanti. Lei, infatti, lo riceve infilandosi le mutande dopo l’ennesimo convegno amoroso con l’amante condannato; e ostenta sicurezza: “Ce l’ho in pugno”. Sì, il traditore è ai suoi piedi; ma anche la Guerritore comincia a vacillare. È tempo di farsi consegnare la lista coi nomi (non sanno ancora che è stato fatta a pezzi e buttata in un water di Londra), e di farlo fuori. L’amore, tuttavia, si sta insinuando, poco a poco, in questa relazione morbosa fondata sull’inganno. Gabriele Lavia sa di avere i giorni contati, lascia il bordello per non mettere a rischio la vita della matrona sinceramente preoccupata per lui (Gabry la definisce, con affetto, “la mia puttana preferita”), e si rifugia in un appartamento con una bizzarra carta da parati in cui sono raffigurate enormi pistole. Proprio qui si verifica un rapporto sessuale metafisico, con le ombre di Lavia e della Guerritore che si compenetrano sullo sfondo delle armi stampate. Nelle varie fasi di questa coreografia dell’umbratile, lascia un po’ perplessi la mancanza, fra le sagome danzanti, di un segmento che le unisca, e che renderebbe plausibile questo ingranaggio anatomico. È, insomma, un amore evirato, platonico in senso eminente (di ombre, cioè, sullo schermo della caverna-arsenale). I due protagonisti, disperati, sembrano orientati a condividere una sorte infausta. Ma Gabriele Lavia non può permetterlo: cerca di farsi odiare, diventa sarcastico, schiaffeggia senza motivo la Guerritore, poi si siede al pianoforte e suona in un improvviso slancio di romanticismo (alla Goethe). Ma non è un buon Werther, ci ricasca, porta fuori la Guerritore, vanno insieme a cavallo e progettano la fuga in Brasile (in aereo). Lui perde di lucidità: “Forse si dimenticheranno di me”. Lei va in un’agenzia di viaggi e compra i biglietti per Rio de Janeiro. Il falso marito la bracca, apre la borsetta e dà sfogo a sospetti ormai più che legittimi. La Guerritore però nega tutto, sostiene di dover assecondare Gabriele Lavia nei suoi deliqui da luna di miele. Ma l’uomo del Pentapartito, ora insieme a un sottosegretario volgare, le comunica la necessità di procedere con l’omicidio – un ordine che, per ragioni un po’ oscure, si è rimandato fin troppo (già il tassista londinese non sembrava così disposto a temporeggiare). Ne consegue l’ultimo appuntamento fra Monica e Gabriele: ecco, squillerà il telefono, e lei dovrà sparare al suo amore; poi accenderà e spengerà la luce tre volte: un segnale per i due uomini della Prima Repubblica che saliranno nell’appartamento e predisporranno lo smaltimento del cadavere. Colpo di scena finale. Ho visto il film in piena insonnia: non garantisco sulla fedeltà della “sinossi”.

mercoledì 16 marzo 2016

IL BENZINAIO - da MARMAGLIA (inedito, 2008)

Da Mura non c’è mai fretta, impera la flemma; il lavoro cheto e felicissimo prosegue anche quando due colonne di automobili alle pompe hanno già spento il motore, oramai arrese, senza che NULLA ancora sia avvenuto, in termini di rifornimento. Qui si vendono carburanti che sono liquori puri, sciroppi preziosi: Mura e suo figlio Isacco li distribuiscono lenti, lentissimi, col passo dei monaci all’imbrunire o all’alba, quando si recano preganti sottovoce all’orto. In fila da Mura si verifica appunto questa sospensione, di vaga atmosfera tibetana, tempo dilatato che si annulla nei loro gesti immutabili, nei loro sguardi insensibili a qualsiasi premura e supplica di celerità. Ma non può esserci alcun dubbio confessionale: ogni mattina, a musicare questa pace così statica, da una Fiat Regata parcheggiata vicino ai pozzi, spalancati gli sportelli, si levano i canti gregoriani di una messa, che volano in alto dall’autoradio tabernacolo: Mura padre (o Padre Mura che dir si voglia) è assai religioso, si definisce un cattolico ipercritico e ci siamo spesso affrontati in dispute teologiche, condizionate senz’altro, nella affabile (relativa) brevità, limitate da quel senso "iper" di cui egli tanto si vanta, ma che non gli impedisce i deliri mariani dell’invasato, la cristologia retorica di un’enfasi che, a mio avviso, ambisce a crocifiggere ancora. Mi è stato riferito che, da giovane, Mura fu criminale incallito.

lunedì 14 marzo 2016

da MARMAGLIA (2008)

Pinuccia è una prostituta automunita, lavora in piazza; non è una tossica succhiata ridotta pelle-ossa, bensì una donna in netto sovrappeso, tozza, ancor più schiacciata verso il basso da chignon di stoppia e orecchini a pendaglio, a cerchione-pattana. Guida una fiat blu-sbiadito dalla carrozzeria erosa, parcheggia in seconda fila e bighellona poi, a piedi, tra la feccia, subito uniformata a quell’ambiente e in fiduciosa attesa di avance – peripatetica. Qui, nei pressi della stazione ferroviaria e col porto incombente che esala il respiri degli ultimi, la chiassosa marmaglia capeggiata da Walter s’intrattiene, perenne: alcolizzati, pusher, amici consumatori, sbandati, tossici dall’attività poliedrica. Pinuccia è l’unica che eserciti il meretricio puro, sebbene da geriatra, da androloga forse, essendo l’età media della sua clientela piuttosto in là. Anziani signori di provincia dall’aria sfatta, umiliata, essi stessi tumidi, prossimi all’obesità, montano sulla fiat “da monatti” verso luoghi ameni in cui tenteranno senz’altro di appiccare i loro ultimi fuochi, ripiegando al limite in conversazioni spinte, in confessioni tra il serio e il faceto in cui l’atto è come abbozzato, se non proprio simulato – evocato nell’aria, supposto. Pinuccia dev’essere un’abile artista di surrogati, un’illusionista. Quando più tardi tornano in piazza dagli amici, il cliente [un ortolano, un ascensorista, un elettrauto] sembra ringiovanito di qualche mese, dimagrito (i liquidi); Pinuccia amorevole propone un caffè scendendo dall’abitacolo che quasi spicca il volo nello sgravio; esibisce il suo carisma femminile, terapeutico, tratta il cliente da maritino stanco, invecchiato; lo vezzeggia per quel non esser più come una volta, maschio nell’esagerazione di quella forza virile trapassata, prodigiosa soprattutto adesso che non c’è più – mistificante assenza, deficit nei cui baratri precipita davvero il più spudorato eccesso, un’implicita aneddotica di gesta erotiche. Il cliente spento, di questa menzogna elemosinata si ravviva, pur conservando il sorriso modesto, una mansuetudine d’agnello; e Pinuccia lo rincuora sempre, gli sta accanto, tanto che poi cede a farsi offrire il caffè: sullo schermo della vetrata di Viduz, da fuori, il cliente si fa avanti alla cassa, galante, cavaliere, e col garbo più retrò, ancora una volta, paga.

da L'APPARATO DIFFERENTE (2009)

Ero insensibile a quel pianto di donna, della cara Ludovica, una Borgia travestita ma poi svestita in scioltezza. Vedova di suo padre, angustiata dal fratello alcolizzato che irrompe in casa ogni notte, come Gesù al tempio, infierendo sulle rovine della famiglia, sul quel lutto ancora fresco – insomma, col cadavere di babbo ancora caldo... Ludovica, tipica orfana amante di un altro padre vicario (che ne fa le veci in tutto), un signorotto edicolante, uno che mostra alla fanciulla i suoi materiali pornografici; uno che soffre dei primi sintomi di una distrofia muscolare - perciò non gli si drizza. Dunque all’apice di una festa nazionale di Liberazione, dopo il pranzo al mare propiziatorio (afrodisiaco?), e il petting sugli scogli tra flutti infranti, si sbarca nell’appartamento destinato alla penetrazione completa. Ludovica Borgia nuda e soda, col seno gonfio di marmo, inizia a stillare il suo pianto lascia-passare, cioè tutti i credits di questo dramma; è il fallimento liquido che sgorga dai suoi occhi calcolatori: è pronta a vendersi solamente se la si acquista in blocco: seni e lacrimatoio, golfi e secrezioni, languori e lamenti un po' da sagrato – delegati, questi ultimi, a rappresentare il suo cuore; sì, il suo Amore. Tutta una muliebrità dell’abbandono, una retorica dei distacchi, di rètina e di scroto: il vecchio distrofico impotente, di lì a poco abbandonato perché la vita la chiama [a Lei, donna]; il padre morto da poco, che però continua a presenziare in casa, spettro ricattatorio, silenzioso rimprovero; il fratello ubriacone che forse molesta la cara Ludovica, ancora non si sa, ma che di sicuro sfascia la povera casa o quel che ne avanza, deruba tra suppellettili superstiti e prende a calci la vedova autentica, non troppo allegra, che è loro madre. Che disastro... Non merita forse Ludovica, questa Borgia redenta nella sventura, questa mera voglia di vita e di regno domestico, di essere salvata? Non merita forse il battesimo a nuova vita erotica: consolata, accarezzata e, in una parola, penetrata? Non merita che la si sposi prima ancora di entrarci dentro?