giovedì 19 maggio 2016

IL GIARDINO DI CEMENTO di Ian McEwan

Il senso del limite (cultura e civilizzazione) è connesso a un'abitudine di regole e codici morali condivisi, più o meno avvertito nella misura in cui si partecipa alla vita sociale. In un contesto di desolazione suburbana, fra rioni demoliti in attesa che vengano su nuovi grattacieli, quattro fratelli restano soli: prima muore il padre, per un infarto; poi la madre, che passa dal lutto a una malattia di giornate a letto e interminabili dormite con i farmaci sul comodino. Questa agonia è una sorta di preparazione allo sbando completo che vivranno i figli: Julie, diciassette anni e naturale mamma vicaria; l'io-narrante Jack, torvo quindicenne devastato dall'acne; Sue, tredicenne cavia introversa della curiosità sessuale dei primi due; Tom, il più piccolo, già vittima di bullismo a scuola, che alterna il desiderio di travestirsi da ragazza a quello di tornare neonato accudito. L'estinzione dell'autorità è campo libero: la macabra euforia per una simile conquista, inattesa, altera il sentimento dei ragazzi persino rispetto alla scomparsa dei genitori: la gerarchia tra fratelli è più blanda, talvolta si dissolve in aperta complicità, ambigue effusioni, "esperimenti" e sfoghi - come quando mamma e papà si assentavano e loro potevano giocare senza più regole. La fine del controllo è l'inizio di un graduale regresso, imbarbarimento che trascura l'igiene della casa, anarchia alimentare, nottambulismo. Il decesso della madre, peraltro, coincide con lo scoppio di un'estate impietosa e con la chiusure della scuole. L'incertezza, il timore che i servizi sociali intervengano, e che la casa finisca rasa al suolo, come inghiottita dalle macerie tutt'intorno, induce i ragazzi a nascondere il cadavere materno in un baule e a riempirlo di cemento. Tutto il romanzo verte sui simbolismi psicologici - Jack sogna spesso una scatola di cui non osa verificare il contenuto; e gli impulsi a trasgredire la legge, già presenti quanto il padre era in vita, dilagano. Julie e Sue assecondano Tom, ne fanno una grottesca bambola con tanto di parrucca; Jack è ogni giorno più geloso della sorella maggiore che, in modo più o meno esplicito, sembra incoraggiare quel desiderio. L'isolamento degenera in una autarchia famigliare, in un volontario ritiro che soffoca angosciato e, al tempo stesso, si crogiola nella propria emarginazione. Lo sviluppo dell'adolescenza di Jack, tra brufoli e cattivi odori, va in parallelo con la putrefazione che spacca il cemento, apre una fessura nel sepolcro. Questo sogno maleodorante, percorso da ostilità, tensioni, erotismo, culmina nell'incesto, che segna anche il brutale ritorno alla realtà.

martedì 17 maggio 2016

ALTROVE, FORSE di Amos Oz

Il romanzo ci porta dentro un kibbutz di confine presentando, per quasi duecento pagine, l'intera comunità: un caso di socialismo ebraico applicato, con episodi quotidiani, rituali, tresche, invidie più o meno latenti, e lo spauracchio arabo di là dei monti. L'insieme è un po' noioso, alla stregua del menage di pettegolezzi che descrive: l'arguzia di Oz, e la sua finezza analitica, innegabile ma discontinua, risultano insufficienti a reggere. Si va avanti per il credito letterario dell'autore, e in parte si è ripagati dall'entrata in scena di un "cattivo" che mette in subbuglio l'ordinaria piattezza della vicenda. Fin lì, la visione critica, ironica a tratti, dei principi fondativi, la fisiologica incongruenza degli ebrei di buona volontà, rischiava di far naufragare l'opera in un affresco di scontato realismo: il poeta Ruben che, abbandonato dalla moglie, infine cede a una relazione con una donna sposata; il marito di costei, Ezra, un camionista, che sembra accettarne l'infedeltà finché non seduce (o è sedotto) dalla figlia sedicenne di Ruben, e addirittura la ingravida. Lo scandalo, i risvolti di una vendetta che mina un intero sistema morale, rimanda di continuo alla moglie del poeta fuggita in Germania (cioè a casa degli assassini), e al destino ebraico inteso come sconfitta passiva, resa incondizionata, tanto alle "corna" quanto, a un livello antropologico e storico, alla ghettizzazione e all'Olocausto. Il cattivo, Siegfried, fratello di Ezra, giunto anch'egli dalla Germania, introduce l'elemento della strategia, della manovra senza scrupoli (desidera la ragazza, col pretesto di ricondurla dalla madre); una riaffermazione della volontà che spesso coincide con la smania distruttiva, col gusto di corrompere una purezza idealizzata (la purezza, di fatto, non esiste; a Mezudat Ram nemmeno i bambini sono puri). Oz, in questo kibbutz, propone un mondo che tende al miglioramento, con incidenti di percorso, fallimenti, derive - ma che, in linea di massima, progredisce. La chiave è l'amore, in senso profano, un respiro sentimentale che prende fiato dal perdono, e dalla libertà che implica perdonare. Il segno di questa scelta esprime, quindi, una certa fiducia nell'uomo; ma è ineluttabile che il risultato, una famiglia allargatissima, tradisca qualcosa a metà fra l'inverosimile e il consolatorio. La ragazza incinta si sposa col coetaneo Rami, innamorato fin dall'inizio; l'anziano Ezra si riavvicina alla moglie, la quale accoglie la giovanissima rivale in quanto figlia di Ruben (morto). Ogni personaggio, purgato da una sofferenza specifica (un lutto, una delusione) riconsidera le proprie convinzioni, le smussa pur di sopravvivere. Ma è una sopravvivenza che somiglia troppo all'accomodamento e ricalca i dettami di un lieto fine edificante. Va da sé, in Israele c'è bisogno anzitutto di questo - oggi non meno di quarant'anni fa, quando il libro è stato pubblicato.

giovedì 12 maggio 2016

LO STRANIERO di Luchino Visconti (1967)

Un processo penale che diventa morale in piena regola. Il Meursault di Camus, appresa la notizia della morte di sua madre, si presenta (all'ospizio e allo spettatore) senza tradire alcun sentimento di lutto. Rifiuta di vedere la salma, fuma in compagnia di un anziano inserviente, beve una ciotola di caffellatte, si appisola durante la veglia funebre. Esprime, più che altro, una vaga fiacchezza, una noia esasperata dalla calura algerina: Mastroianni suda e inzuppa camicia e giacca, si passa di continuo un fazzoletto sul collo, sbuffa e segue il corteo sotto il sole a picco, lungo sterrati polverosi, come a sbrigare una formalità. Visconti in questo frangente è abile a costruire un'atmosfera levantina, di vapore acqueo, smog, folla, insetti; a ogni passo si ode un crepitio, quasi a rimarcare l'erosione, il lento disfacimento della scena umana (la partecipazione, i sentimenti). Il senso di oppressione fisica, il continuo malessere a cui si reagisce con uno stordimento di sigarette, di vino bevuto un po' controvoglia, di cibi ingurgitati con astratta voracità, si placa nell'erotismo serale: una collega di ufficio abbordata in spiaggia, portata al cinema, baciata, condotta fino al letto di Meursault - dove spira, dalla finestra lasciata aperta, una leggera brezza pacificante, che giova ai corpi eccitati. Il gusto dell'esistenza è in questo respiro umorale, fra nausea e gemito, a ridosso di un confine labile, ambiguo, in cui dolore e piacere sembrano talvolta mescolarsi. In una simile accettazione del destino, passiva in apparenza, tutta fondata sulla percezione della materia, sulla deperibilità dell'organico, si scivola a poco a poco nell'indifferenza. Raymond, un vicino di casa, confida a Meursault i suoi guai con un arabo, fratello di una "fidanzata" che ha malmenato. Mastroianni si presta a scrivere una lettera di insulti che, tuttavia, susciti nella donna dei rimpianti, una nostalgia utile allo scopo dell'amico: attirala un'ultima volta, possederla, e picchiarla. La trappola funziona, c'è una rissa, a cui seguono nuovi pedinamenti e atteggiamenti intimidatori da parte dell'arabo. Sul finire di una giornata al mare, dopo una prima colluttazione in cui Raymond viene accoltellato, Meursault si ritrova solo e obnubilato sulla battigia. Ha con sé la pistola; un colpo di sole, un balenio sulla lama del coltello: spara, uccide il giovane arabo prima d'esserne aggredito. Quindi, è colpevole? I colloqui col giudice istruttore e il dibattimento in aula determinano il punto di vista filosofico di Meursault, cioè la morte come unico orizzonte in cui i valori spirituali, cattolici in primis, si appiattiscono nella menzogna del conformismo morale. La sola verità sono i sensi, e l'irripetibile esperienza dello stare al mondo; così, se ci fosse una vita dopo la morte, Meursault vorrebbe poter ricordare l'amante, la brezza sui loro amplessi, e la luce delle stelle. L'assassinio è stato una disgrazia, la sciocchezza di un istante - e non può esserci pentimento. Il forcing della Giustizia umana lo pretende ancor di più per la madre lasciata morire nell'ospizio; si reclama il rimorso, la Colpa che l'imputato non prova, perché - ormai - non avevano più niente da dirsi. Giudicato colpevole dagli uomini, indifferente al perdono di Dio, nella piena consapevolezza che morire a trent'anni o a sessanta, non cambia granché, sarà impiccato. Lo sguardo finale di Mastroianni è un addio perfetto, come la sua voce che legge Camus, e l'intera prova attoriale, che regge (insieme al romanzo) un'opera discontinua, con una regia che troppo spesso ricorre allo zoom e alla irrequietezza delle macchiette.

mercoledì 11 maggio 2016

Carta forbice sasso (dal catalogo Asterios)

IL DESERTO ROSSO di Michelangelo Antonioni

Infine, il disagio intacca il matrimonio, e lo corrode; perfino la maternità si inceppa, giacché la natura stessa, incalzata dall'industria (simbolo primario del Capitalismo), sembra avviarsi a una sconfitta epocale e irrimediabile - una sorta di collasso tra fumanti ciminiere e sversamenti in mare. Giuliana (Monica Vitti), moglie di un manager con la erre moscia, vive nei pressi di un gigantesco impianto: finestre sui piazzali con gli operai in sciopero; sui gasdotti, sui maleodoranti pantani di un disastro ambientale già compiuto; finestre sulle petroliere che arrivano e che ripartono. Tutto, in questa crisi esistenziale, è sguardo, contemplazione sfocata di una realtà opprimente. Mai una gioia, nemmeno per suo figlio, che viene su attorniato da balocchi tecnologici, robot, giroscopi, vetrini e sostanze coloranti da piccolo chimico. Giuliana, per inciso, ha già tentato il suicidio; ma suo marito, dopo averla presentata all'amico Corrado Zeller (Richard Harris), riferisce di un incidente stradale e di un trauma che, tuttora, impedisce alla donna di "ingranare". Questo linguaggio meccanico, unito al perenne compiacimento da alto dirigente pieno di soldi, incurante di qualsiasi elemento extra-aziendale, è sintomo di un'impotenza sentimentale assoluta, e di una vita di coppia morta e sepolta negli acquitrini industriali di Ravenna. Zeller, al contrario, sembra incarnare il borghese illuminato, in grado di filosofare su un'identità politica connessa alla moralità (avere la coscienza in pace); in fondo, però, è inquieto anche lui, e in perenne fuga dai luoghi in cui potrebbe mettere radici: non a caso, sta reclutando operai per un progetto in Patagonia, il suo ennesimo viaggio solo-andata. La completa mancanza di senso di una modernità pianificata in ogni dettaglio, nei ritmi serrati della produzione, negli spazi ottimizzati che fruttano scarnificando il paesaggio, si manifesta nell'astruso progetto di Giuliana: aprire un negozio senza nemmeno sapere cosa vendere. Comincia da un locale, dalla scelta della pittura per le pareti. Il primo incontro con Zeller avviene fra test di colore, strisce sull'intonaco nudo, in una stanza per il resto disadorna. E', sì, un inizio - ma di che cosa? Quando escono in strada, in un quartiere spopolato e monocromo, il vento spinge ai loro piedi un foglio di giornale. Giuliana si stupisce, perché "è di oggi". L'intercambiabilità dei giorni, dei momenti, persino degli amori, sbiadisce il mondo. L'attrazione fra i due segue una legge di complementarietà: lei guarda e non capisce, avverte un totale rifiuto (per il brutto che dilaga, per i rumori assordanti della fabbrica, per gli amici che frequenta suo marito), e prova a esprimersi, anche per mezzo della nevrosi; lui ascolta e sembra capire, tenta di elaborare i mutamenti e gli eccessi della realtà, deciso a integrarli in un quadro più umano. Spesso si ritrovano a passeggiare in uno scenario dominato dall'inquinamento: paludi, idroscali, spoglie distese, filari di enormi antenne a perdita d'occhio. L'esperienza visiva di "Deserto rosso" è in questa prodigiosa estetica della desolazione, nelle suggestioni poetiche che se ne ricavano, e nei dialoghi, nelle interferenze - un disturbo metafisico in cui tutti i personaggi si muovono più o meno consapevoli della catastrofe (razionale?).

lunedì 9 maggio 2016

L'ECLISSE di Michelangelo Antonioni

"L'eclisse" comincia dove finisce "La notte", con una donna e il suo non ti amo più: è passata da poco l'alba a Roma, e i due personaggi si lasciano dopo un confronto interminabile e dilatato, quasi venendo fuori da un punto morto di frasi sommesse, inconcluse, alternate a silenzi snervanti coperti dai giri di un ventilatore. C'è una profonda stanchezza in questa separazione, un esaurimento degli argomenti e dell'energia necessaria a formularli. I due avrebbero dovuto sposarsi di lì a poco, ma tutto va all'aria senza drammi, con relativa compostezza. Per Vittoria, in particolare, è un sollievo. Vorrebbe parlarne con la madre, assidua frequentatrice della Borsa, ma in quella bolgia delirante il suo senso di estraneità e di emarginazione si esaspera, perciò omette di annunciarle il fidanzamento appena troncato. Nella stessa circostanza incontra Piero (Alain Delon), un broker ipercinetico che mangia panini al volo e fuma in continuazione. L'opera si sviluppa fra questi due poli, gli spazi vuoti dell'EUR, con cantieri edili, fermate d'autobus nella tetra staticità residenziale, e il chiasso del centro storico di Roma, fra il mercato ortofrutticolo e quello delle azioni. Vittoria (nome beffardo) non prova alcun interesse per il denaro, è una natura contemplativa, astratta, vagheggia felicità indefinite, ma cova una sorta di disincanto; resta affascinata dalla primitività africana, o perlomeno da come gliene riferisce l'amica keniota di una sua vicina di casa. Questa nostalgia del tribale si evinceva anche ne "La notte", con la scena al night (il numero era affidato a due africani); e rimanda a un saldo negativo della civiltà tecnologica. In tutti i momenti notturni, la Vitti ha un bagliore selenico; e il contrasto, quando lei appare in un travestimento negroide con collare dorato, e si abbandona alla danza, è fortissimo. La relazione con Delon patisce una resistenza; buona parte dell'opera è incentrata su questo disorientamento, su un'intermittenza nevrotica del desiderio che sembra pronto a darsi, ma poi si nega. L'amore nasce un po' forzato nell'appartamento museale di Piero, fra arredi preziosi e ritratti d'antenati che, osservando la scena, conferiscono all'atto qualcosa a metà fra colpa e irrilevanza. Il senso metafisico dell'esistenza, inserita, "gettata" nella Storia, è dato dalla stessa Vitti quando si affaccia su una Roma che meriggia eterna e - appunto - alienante (alienazione è, senza dubbio e non a torto, la parola più spesso associata al cinema di Michelangelo Antonioni): parimenti alla tecnologia, c'è un peso, un'eredità umanistica che grava, che schiaccia l'individuo e lo azzera. Il broker ha trovato una sua dimensione nella Borsa; con semplicità (anche con povertà, in fondo) prova a suggerire questa medesima strada alla Vitti: all'inizio, spiega, è difficile, ma poi ci si appassiona. Lei, con brutalità, gli domanda: "Ci si appassiona a cosa?". Soldi, carriera e status symbol sottraggono, deprivano nell'esatta misura in cui sembrano aggiungere qualcosa. L'amore stesso, quindi, che senza alcuna spiegazione logica si era originato, senza una spiegazione deperisce, muore. Proprio la modernità, forse, con i suoi artifici, lo eclissa. La vita continua all'EUR, i luoghi degli amanti sopravvivono senza di loro: l'epilogo accenna a questa sparizione, con la gente che va al lavoro, che torna a casa, e i simboli sono ancora lì, un bastoncino che galleggia in un po' d'acqua stagnante, una donna che somiglia alla Vitti, ma non è lei. Un'altra giornata volge al termine, i fanali si accendono sulla strada.

giovedì 5 maggio 2016

LA NOTTE di M. Antonioni

Il Boom economico è osservato nei vuoti che lascia: la solitudine in coppia, nel traffico congestionato di Milano; o Jeanne Moreau senza meta per campi di periferia in cui si lanciano razzi artigianali. Aree urbane inquadrate dall'alto, panoramiche di sterrati, con ragazzi che si sfogano in vorticosi combattimenti. "La notte" è una pellicola storica, nel senso che rappresenta l'opera di scavo, e di svuotamento, esercitata dal Progresso, con l'individuo ridotto all'evanescenza e a un'inerzia spossata: l'uomo ha smarrito identità, certezze, perfino sentimenti. Sopravvive in una superficie che muta, contraddittoria, fra caseggiati, ruderi postbellici, grattacieli e ville fuori porta. Partecipa, lavora, conquista posizioni, si afferma - ma al tempo stesso fallisce. Il caso di Guido Pontani, il protagonista, è emblematico: scrittore sulla via della celebrità, si presta alla pantomima degli eventi culturali, un mesto trionfo mondano che non riesce a condividere nemmeno con sua moglie. Lei, annoiata, abbandona l'incontro alla Bompiani e finisce a Sesto San Giovanni. Poi telefona al marito per farsi portare a casa: grande appartamento borghese in cui sembrano disporsi, in una smorta geometria, i cimeli di un'avanguardia artistica residuale, costosa e fredda, che arreda senza comunicare. In questo tempio monotono dell'intellettualità e dell'agio inutile, i coniugi non hanno più nulla da dirsi. Quindi escono giusto per non stare in casa - prima un night con numeri da circo erotico, poi la Dolce Vita presso un industriale miliardario con piscina, cavalli, consorte logorroica radical-chic e figlia perspicace e disincantata (Monica Vitti), una ventiduenne che legge "I sonnambuli". Guido resta infatuato dalla ragazza, ma come sospeso fra questa apparizione di vitalità misteriosa, e di vizio, e la passività angosciata di sua moglie, che si aggira fra gli invitati, persa, il pensiero rivolto all'amico quasi-amante che sta morendo al settimo piano di un ospedale. Non c'è gioia nel divertimento; il benessere stesso rivela un guasto intrinseco che si trasmette e rovina tutto. Le ampie vetrate della villa riflettono una festa opaca, che sembra implodere nei suoi intrattenimenti chiassosi e demenziali. Una delle suggestioni visive più potenti è proprio questo sfocato sdoppiamento scortato dalla cinepresa, in perpetuo movimento: lente carrellate di simulacri, uno schermo dentro lo schermo degli "alienati", mentre fuori si abbatte l'acquazzone. Se Mastroianni è l'elemento rappresentativo di una crisi epocale, sempre sul piede dell'adesione, del rassegnato adeguamento; la Moreau, stupenda, è il femminino che intuisce, intravede, e prova a decidere: sarà lei a dichiarare la fine dell'amore. Anche se questo non basta più a scegliere, a farsi padroni del proprio destino.

martedì 3 maggio 2016

Antichrist

Willem Dafoe, che in passato era stato Gesù, qui è uno psicoterapeuta di Seattle convinto di fare miracoli: rappresenta tutti i valori fermi della razionalità onnipotente e della psicanalisi come scienza. Ha sposato una donna brutta e voluttuosa (il femminino ancestrale a sfondo ninfomane); e quasi a punire un erotismo movimentatissimo, il loro bambino cade dalla finestra mentre stanno facendo l'amore (prologo al rallentatore girato in bianco e nero, con il "Lascia ch'io pianga" di Handel). La tragedia determina nella Gainsbourg un'elaborazione del lutto "atipica". Dafoe non esita a licenziare il collega incapace ("atipico" implica un margine di inspiegabilità) e riporta a casa sua moglie dopo un mese di ospedale senza miglioramenti; insomma, la prende in cura nonostante in qualità di marito non potrebbe, né dovrebbe. Il menage d'appartamento, dove il senso di colpa imperversa, è terrifico: insonnie devastanti, attacchi di panico e fughe carponi in gabinetto, colluttazioni penose, grida, valanghe d'angoscia a tratti arginate da furiosi coiti che non servono alla causa. Dafoe è un professionista esperto, il suo postulato è che la paura vada affrontata di petto. Disegna una piramide da riempire con le ossessioni di sua moglie: l'obbiettivo è risalire fino al vertice. Cosa la spaventa più di tutto? La foresta di Eden, dove i coniugi hanno una casetta di legno per ritirarsi in estate: la Gainsbourg l'ultima volta ci è stata da sola col figlio, per comporre una tesi sulle streghe messe al rogo dall'Inquisizione. La piramide, poco a poco, si struttura. Dafoe è certo di poter risolvere il caso. Sottopone sua moglie a una serie di esercizi, anche di respirazione. Quando arrivano nella foresta sono Adamo ed Eva in tenuta da trekking. Lei non riesce nemmeno a camminare, il terreno scotta. Lui è categorico: non è vero, non scotta; è una somatizzazione bella e buona. La Gainsbourg però leva gli scarponi e scopre la pianta dei piedi ustionata. Poi, sfinita, si risposa sull'erba, si addormenta. Lui intanto gironzola e s'imbatte in una cerva col cucciolo morto ancora attaccato. Dafoe, da buon illuminista, sorvola su questo simbolo e, non di meno, sui messaggi sinistri che Eden gli sussurra in continuazione. Anche la casetta di legno non si rivela un focolare sicuro. La notte il tetto spiovente è sferzato dalla caduta di migliaia di ghiande che reiterano all'infinito lo schianto del bambino. Il vento soffia tra gli alberi, una finestra si spalanca - e la Gainsbourg non ha dubbi: è il respiro di Satana. Ma suo marito non batte ciglio, insiste a programmare una terapia razionalistica, step by step. Dispone nel prato antistante due pietre, partenza e traguardo, e impone a sua moglie di compiere il percorso. La Gainsbourg, incoraggiata e scortata passo passo, riesce nell'impresa, senza bruciarsi. I due, felici, si abbracciano. Ma subito dopo, da una quercia, precipita un pulcino morto e già brulicante di formiche; e un'aquila nera, maestosa, si fionda per assicurarsi quel fortuito pasto. La Natura è maligna, e il bambino non smette di cadere dalla finestra. Dafoe tiene in tasca il referto dell'autopsia - sale nella mansarda e trova una serie di illustrazioni macabre sulle torture a cui venivano sottoposte le eretiche. C'è un nesso con la strana deformazione che hanno riscontrato nei piedi del bambino? Osserva con attenzione le foto scattate in estate (madre e figlio nella veranda). In tutte, il piccolo ha le scarpe invertite. Ora Dafoe, per la prima volta, avverte una certa inquietudine accanto alla moglie. Lei se ne accorge e gli pianta un paio di forbici nella schiena. Si accapigliano fino all'amplesso - lei d'improvviso si sottrae, e lo ferisce esplicitando - in termini freudiani - la nota invidia per il pene. Che eiacula sangue. Dafoe, svenuto, è un cristo pronto alla sua croce. La Gainsbourg gli buca una gamba con un trapano a manovella, poi gli fissa alla caviglia una mola, e getta via la chiave inglese. Questo non basta a fermare il razionalismo di suo marito, che trascinando l'arto zavorrato si infila in una tana. E' l'epilogo di una schizofrenia che ormai dilaga, con la donna anticristo prima a caccia del maschio, poi pentita (come ci si pente di un aborto). La ragione mascolina ha la meglio: Dafoe strangola la strega e la brucia in un rogo barocco. Il film si chiude con Adamo che scende per la foresta di Eden, mentre una folla che moltiplica Eva gli va incontro, lo accerchia. Il conflitto uomo-donna, esasperato in un horror depressivo (psichiatrico) elegantissimo e pieno di suggestioni filosofiche, è forse il capolavoro di Von Trier. Un'opera intollerabile che rivela tutta la poesia del male, la sua origine misteriosa affidata a un'ipotesi che ha lo sguardo, e la follia, di una donna.