sabato 27 maggio 2017

IL VINO DELLA SOLITUDINE di I. Némirovsky

E' una solitudine spettacolare, il negativo di una favola con tanto di appartamenti nobiliari, domestici tiranneggiati, argenteria rastrellata in aste fallimentari e viaggi frequentissimi: una specie di Grand Tour nell'Europa che, dopo la Grande Guerra, assiste alla caduta degli imperi e alla proliferazione degli speculatori. C'è una componente di già visto e sentito che, a tratti, spegne il romanzo e infiacchisce i personaggi, la madre della protagonista in primis: donna fatua e capricciosa, tutta belletti e rimproveri alla figlia - è un espressionismo degli egoismi che diventa spesso caricatura parvenu. Anche l'aspetto formale ne risente. Le descrizioni ambientali e meteorologiche sono dettagliate e precise fino al compiacimento, ma intercalate da soliloqui intenzionali e giudizi un po' superflui - appannaggio di Helene, a lungo, tanto che il suo punto di vista sembra coincidere con quello del narratore; d'improvviso, però, si entra nei pensieri degli altri, e questo dà un senso di disorganicità. Le oscillazioni spirituali, i buoni propositi che cedono alla vendetta, e viceversa, risultano schematici, posti all'interno di un sistema binario che stride con la finezza di alcuni passaggi più evoluti e sfumati. La rivalità fra donne è centro e motore dell'opera, apre dei vuoti incolmabili e determina una solitudine più accondiscendente rispetto agli uomini (a cominciare dal padre di Helene). Si aziona e va a pieni giri all'incirca a metà lettura, e il romanzo, tutto sommato, se ne giova in termini di coinvolgimento.

sabato 20 maggio 2017

IL MIO NOME E' ROSSO di O. Pamuk

Dopo l’inizio eccellente, intorno alla trecentesima pagina comincia a delinearsi la sindrome Potëmkin, via di mezzo fra i malori di Stendhal e gli attaccamenti masochistici di Stoccolma. Però val la pena di insistere, perché il romanzo è ambizioso, ricco e malinconico. Consente anche di farsi un’idea della visione musulmana dell’arte, della morale e di quanto ne consegue in termini politici (teocrazia). L’aspetto più interessante è lo spegnersi di una tradizione in cui, attraverso la miniatura, si aggirava il divieto della rappresentazione. Questi disegni, a corredo dei testi, non avevano un valore indipendente, ma scortavano il sogno arabo che, di fatto, assurgeva ai “ricordi” di Allah. L’impianto canonico ribadiva che l’immagine miniata, a differenza di ciò che avveniva nell’arte europea, non pretendesse di competere con la Creazione divina: era una specie di schema oggettivo, stilizzato, in cui la guerra, per esempio, si realizzava raffigurando i due eserciti schierati in file ordinate, e non in un mescolamento realistico di soldati, armi e cavalli. Questo tenace manierismo che trattiene l’immagine in una volontaria semplificazione, si scontra presto con la tendenza a personalizzare il disegno, a “firmarlo”. Lo stile, in tal senso, è visto come un difetto del miniaturista, una deviazione rispetto al sentiero aperto dagli antichi maestri. Il lettore occidentale non può che interpretare questo processo storico (di affrancamento, o ribellione) come una genesi dell’ego – la risposta umana (luciferina) all’appiattimento devoto e all’uniforme astrazione che imporrebbe di fermare il Tempo, di costringere gli uomini, tutti uguali, nell’abbraccio eterno di Allah. Il rifiuto di qualsiasi sviluppo confligge, dunque, con il desiderio di evolversi che passa anche per l’imitazione dei maestri veneziani, formidabili ritrattisti, che adottano l’ombreggiatura e la prospettiva. Il romanzo racconta, appunto, la realizzazione di un libro segreto prospettico, in cui al centro figuri il Sultano (l’uomo), e non più Allah. Fin qui avremmo un magnifico saggio in cui sono riportate leggende persiane, miti, scene d’amore e di battaglia poste a fondamento dell’Impero ottomano, e a celebrarne il Califfo. Ma la forza narrativa della vicenda ne risente un po’, perché la scrittura di Pamuk (lo stile) a tratti non ha la forza necessaria, sconfinando in una prosa da catalogo d’antiquariato e nella retorica estetizzante di un ricettario da suq: se ne ricavano, sì, atmosfere, ma il giallo scolora, si perde, al punto che verso la metà del libro non si ha più questo spasmodico interesse a scoprire l’assassino. È senz’altro un “difetto” nella costruzione dell’opera – che poteva mantenersi più alta e intensa, condensandosi, dando più rilievo e incisività alle relazioni fra i personaggi: troppi e, in definitiva, troppo simili. Apprezzabile, tuttavia, che siano impastati nella menzogna, e nel rosso – il colore Verità dell’amore e del sangue.

giovedì 18 maggio 2017

CARTA FORBICE SASSO, pag. 111

Strano leggerti... Credo sia stata la prima mail in dieci anni. Per iscritto, forse, risulti meno severo. Con un solo avverbio, “forse”, si può smussare un intero discorso di spigoli vivi. Quanto a Egidio, nessun problema: è già molto indipendente per la sua età, e dalla nonna si diverte: una settimana in più a Roma non gli farà male. E poi, è vero, abbiamo bisogno di starcene un po’ da soli. Cala Sinzias è l’ideale. E ogni tanto quella casa mi ricompare in sogno, ghermita dagli irti ricami dei suoi ginepri. In fondo, piane asciutte che sanno di paglia e d’Africa (c’è una povertà comune di terre su cui batte il vento; un destino infiammabile, di popoli nati carbon fossile lungo le sponde del Mediterraneo). Amo ricordarci lì, alla luce di pochi giorni felici, riflessi nel verde limpido di uno stagno. Il mare, a cento metri, è un muro che si disfa nello schianto dei cavalloni, e si erge ancora... Ci isola per un pomeriggio soltanto, ci illude entrambi: anche tu, in quei momenti, ti sveli un poco – parli sottovoce, mi accarezzi. “Forse” non sei come sembri. Ti vedo: un legionario disteso su un fianco, reduce da lupanari, col seme sversato in lacci e perle su corpi bruni, su capelli sciolti in una lotta senza rivendicazioni. Ma ora trovi nei miei occhi la somiglianza cercata in migliaia di altre donne; ora ti arrendi, ancor prima di cominciare... “Forse” non sono così forte. Ma nella resa di quel legionario, io posso assurgere a un’umanità compiuta: ricongiunta al mondo, al perdono, a quella santità che inventa un dio, solo per modestia. Mi capisci, Bastiano? “Forse” no. Ma ci sarà modo di spiegarsi, a Cala Sinzias. Ti precederò, col peplo greco anche se avrò freddo, perché quella è la veste dell’attesa. Ti cucinerò l’agnello, porterò i carciofi, quel pane di semola croccante, la cui pasta resta tiepida e dolce per giorni; riempirò di vino il bicchiere, perché tu possa berne non appena arrivi. Sarò pronta, e, vedrai, ci basterà un istante, e un filo di luce, per far cadere interi millenni di guerre nell’ombra.

mercoledì 17 maggio 2017

JULES E JIM di F. Truffaut

Quello di Truffaut è un'innovazione che passa per la pellicola accelerata degli anni Dieci, una rivoluzione a base di protocinema che dice addio alla Belle Epoque e al contempo smonta il giocattolo dell'amore monogamo. E' una novità, quindi, nella forma, con l'uso di istantanee impressioniste (Jeanne Moreau, come un ricordo), e nella sostanza, che analizza senza ipocrisie né giudizi affidati ai personaggi la natura volubile dei sentimenti. Il menage a trois, fra due amici che si danno del lei fino alla fine e una donna che rappresenta al meglio il concetto delle intermittenze del cuore, è già un'espressione di nouvelle vague, con tempi narrativi stravolti, introspezione velocissima ora delegata a una voce narrante classica ora a dialoghi serrati, densi, che denotano invariabilmente finezza psicologica e linguistica. Jules, l'austriaco, è una specie di cuckold mascherato di devozione e spiritualità; Jim, il francese, un libertino che scopre la gelosia e capisce fin troppo l'intermittenza di Catherine (la Moreau).

martedì 16 maggio 2017

IL FASCINO DISCRETO DELLA BORGESIA di L. Bunuel

Si può leggere anche come "L'avanzata criminale della borghesia", metafora suggerita dalla marcia dei personaggi che scandisce l'opera, tra un episodio e l'altro, e la chiude. Tanti sogni in un amalgama tutto sommato organico con la storia e, in definitiva, con il surrealismo di cui Bunuel era maestro. Ma ci sono - anche - i capisaldi della critica marxista per un manifesto che, nel 1972, risultava assolutamente "sul pezzo". Questo è alla base di un successo culminato addirittura nel Premio Oscar per il miglior film straniero, battente bandiera francese. Restano diverse perplessità sui fattori, per l'appunto, alla moda - in particolare l'allegoria del vescovo che si propone come giardiniere e servo, o dei militari che si limitano a far manovre in giardino. Il senso è tutto nelle nevrosi di una borghesia arricchita, dedita al traffico di droga, ma che trascorre le giornate alternando l'adesione al galateo, con la buona conversazione, e gli sfoghi sessuali tipici (l'amplesso fra i cespugli, etc.). Va detto che l'irruzione dei sogni giustifica un po' tutto, è una specie di passe-partout in un film che spinge la critica economico-sociale verso una farsa vagamente snob. Intelligente, cattiva, però - non si può negarlo - un po' datata: per il linguaggio cinematografico adottato (zoom da B-movie), per i simboli anticapitalisti, per la cosiddetta appartenenza a un'epoca impegnata, al di là dei mascheramenti stilistici.