mercoledì 16 novembre 2016

BENEDIZIONE di K. Haruf

Romanzo amatissimo su aNobii, è perlopiù un monotono bollettino, una cronaca di provincia con gretti paesani, zitelle, coniugi divisi fra la croce della monogamia e quella dell’adulterio; più una bambina taciturna e un reverendo incompreso. Si legge con blando interesse, registrando dialoghi strumentali che informano il lettore su tutto il pregresso. I tempi narrativi risultano sfasati: l’azione repentina di uno schiaffo, per esempio, “telefonata” in una sorta di moviola; ogni colpo di scena smorzato nella generale prevedibilità della vicenda. I sentimenti dei personaggi sono dichiarati, per cui manca qualsiasi tensione; i rapporti seguono una linearità deprimente, ancor più depressa nella prosa-telegrafo (soggetto predicato complemento) che si anima soltanto in alcune descrizioni paesaggistiche. Ma la pianura, la sua tremenda aridità, offre pochissimo anche in questa direzione. Quindi si assiste all’agonia di Dad, il burbero proprietario della ferramenta, sperando che Haruf non la tiri troppo in lungo. E, invece, il pover’uomo non muore mai, vegliato da una moglie devota e da una figlia che non riescono a spingere le loro elucubrazioni luttuose oltre i confini di una soap. L’immedesimazione e il pathos in ultimo trovano appiglio nell’irregolarità respiratoria e nei rantoli; mentre il corpo inizia a coprirsi di lividi e gli occhi, al di qua e al di là del capezzale si fanno lucidi. E la fine, sì, è davvero una benedizione.

giovedì 10 novembre 2016

MENTRE MORIVO di W. Faulkner

Una delle ragioni che spingono alla lettura di Faulkner è provare a capire perché Elio Vittorini, per esempio, abbia cominciato a imitarlo: indagare quel gusto libidinoso a eliminare gli articoli, come fanno alcuni quando si rivolgono a uno straniero, o a lasciare sottinteso il soggetto della frase, in modo che non si possa seguire l'azione, ridotta a una scommessa per lettori che se ne intendono, disposti cioè a tornare indietro di continuo. Ci si imbatte in una certa avarizia sintattica che poi, all'improvviso, concede fin troppo, con immagini prolisse, tipo un cavallo che impenna in un labirinto di zoccoli. All'inizio va così, maluccio, fra crescenti perplessità anche in rapporto all'ineluttabile flusso di coscienza (il libro è scritto nel 1930), con singolari costruzioni, ripetitività sclerotiche, verbi che reggono all'inverosimile in una sorta di forzata carpenteria cognitiva, poco verosimile per chiunque, non solo per dei contadini. La ruralità del contesto, questo Sud del cotone, delle baracche, dei fiumi che esondano e dei ponti sommersi nel fango, stride di brutto con i discorsi ontologici di alcuni personaggi, che per un terzo dell'opera si avvicendano senza imporsi nella loro specificità, come una polifonia che non varia mai, che si amalgama - anzi - in un coro monotono pieno di tristezza e fatalismo. Ma il lettore, perfino il più ostile e diffidente, ogni tanto non può che sbalordire per la forza di un'immagine: è quella che si usa definire la potenza icastica di Faulkner - una notte di buio pesto e un vitello impantanato, la cui presenza è ricostruibile attraverso i singoli rumori che emette; o il falegname Cash, quando prepara la bara per la madre al bagliore di una lanterna posata per terra, e ogni suo movimento colpisce la luce in una specie di autosottolineatura involontaria (il gomito, la lama della sega, il dentro e fuori di quel tagliare il legno). Se si era pronti a crollare sulla pagina, ecco, ci si sveglia di soprassalto alla poesia dirompente di questa sintesi assoluta, come una strada che entra "dentro gli alberi". Io ho ricordato il disegno di un bambino: raffigurava un suonatore di fisarmonica e sembrava uno sgorbio con braccia e mani sproporzionate, ma rendeva benissimo l'avanti e indietro del mantice. Faulkner ha fatto scuola, credo, proprio per la sua straordinaria capacità di rottura: ha cioè rotto il giocattolo-letteratura, ma ci ha restituito dei singoli ingranaggi con un nitore rarissimo, perfetto; con la poesia spietata della fanciullezza. Bisogna perciò studiarlo, e non leggerlo. Va prima compreso, e soltanto dopo, con rinnovato stupore, goduto.

lunedì 7 novembre 2016

PASTORALE AMERICANA di P. Roth

Bisogna domandarsi se a Newark, per esempio, leggerebbero un romanzo ambientato nel nord-est d'Italia, incentrato su un'epopea di artigiani divenuti imprenditori, gente immigrata dal sud, supponiamo, che ha cominciato in una botteguccia per approdare in fabbrica, patriarchi che hanno sacrificato i loro anni migliori sgobbando con fiducia pur di tramandare ai loro figli un mestiere e una coscienza nell'esercitarlo; e poi figli oramai sistemati, anzi ricchi, che hanno capitalizzato anzitutto questo insegnamento, che hanno ereditato una quasi-multinazionale in cui l'operaio è non solo rispettato, ma in certo qual modo sacro, e il lavoro stesso una liturgia che produce sì profitto, ma etico, con manufatti in cui ogni dettaglio è curatissimo e che al solo acquistarli ti si allieta il cuore. A corredo della pastorale nord-est abbiamo lo sport, la provincia, la scuola e la parrocchia: un romanzo italiano in cui si metaforizza il calcio, cioè l'allenamento per la vita, parecchio descrivendo i ruoli di gioco (terzino, centravanti) e il gesto tecnico (calciare tenendo il corpo all'indietro e non beccare mai la porta); si metaforizza la strada, quei luoghi interiori così legati alla fanciullezza dei primi baci e delle risse un po' romantiche, con tanto di quartieri affettuosi, periferie in cui già cova la futura violenza, nomi di vie e piazze, lunghi itinerari da casa fino all'oratorio di San Giuseppe: sole sui tetti dei palazzi in costruzione, sole che batte sul campo di pallone, etc. Come la prenderebbero a Newark? Leggerebbero dello sfaldamento di questo Piccolo Mondo Antico e di come a incrinarsi sia per prima la famiglia, con la repressione in extremis dell'incesto, con Edipo che a volte si piega ai voleri di papà, per identificazione passiva, altre volte si ribella e gli cava gli occhi, magari per sbaglio? Insomma, non soltanto politica, ma psicologia, relazioni, e quindi tradimenti. La decadenza morale sancita, a livello generale, dalla purga del Sessantotto, quando i sindacati cominciano "a metterla giù pesante" con i diritti, e gli operai, di riflesso, si impoltroniscono. La qualità dell'industria, poco a poco, va in malora. I nipoti della quarta generazione non vogliono più studiare, né lavorare, improvvisano carriere eversive e alla fine ci scappa il morto. Questo romanzo italiano avrebbe un grande successo di critica a Newark e nel resto d'America, se ci fosse dietro lo stesso editore di Pastorale americana, e lo stesso apparato culturale teso a enfatizzarne i temi, la complessità di visione che li concatena in un tutto organico. Sia detto non per sminuire il lavoro di Roth, che è buono, ma per rilevare che il suo libro ha goduto di una spinta ENORME se ancora si sospira, sfogliandolo, con la parola "capolavoro" a fior di labbra. Possibili tag: intellighenzia ebraica, New York, Vietnam, Partito democratico, Sessantotto, baseball, famiglia, integrazione religiosa, mondo operaio nella sua genuinità. No, non è un capolavoro. E' un romanzo dall'impianto tradizionale, nonostante i piani temporali sfasati da anticipazioni e flashback, con un narratore onnisciente che fa capolino e versa sul piatto dei lettori il sugo della storia. Una specie di Manzoni yankee ebreo deciso a una seria autocritica nazionale. Uno che più che filosofare si propone come filosofo, e getta l'ombra ingombrante dell'Io-penso-che su ciascun personaggio - tutti oratori impetuosi che costringono l'interlocutore ad ascoltarli in silenzio per due o tre pagine. Un americano, al solito, "dannatamente" vanitoso, che ripropone la vecchia ampia falcata da romanzo europeo ottocentesco, divulgativo, politico, artigianale, botanico, psicologico. Uno che ritiene d'aver capito il fallimento dei tempi, e vorrebbe darci una lezione. Anche di baseball.