sabato 29 agosto 2015

venerdì 28 agosto 2015

Il quinto figlio

Harriet e David sono una coppia di semidisadattati con una visione della felicità piuttosto "fuori moda": nel pieno fermento libertario degli anni Sessanta, credono nella famiglia e anelano di mettere al mondo otto figli. Ostentano un tradizionalismo audace: comprano una villa a tre piani nella campagna inglese, con tanto di ipoteca, e il papà di David (un armatore miliardario) finisce per accollarsi le spese. Non c'è approvazione intorno ai giovani sposi, ma i loro slanci irresponsabili attirano la curiosità e la benevolenza un po' interessata del parentado: in breve tempo diventano il centro di una famiglia allargata, e la villa è subito meta di pellegrinaggio. La prima parte del romanzo mette in scena la realizzazione di un progetto morale e di vita, coi figli che si susseguono in un continuo viavai di gente per casa, e la felicità che dilaga smussando conflitti caratteriali e di classe. Gli stessi Harriet e David ne sono meravigliati: la notte, abbracciati, quasi si vergognano della loro esistenza gioiosa dove ogni sacrificio è premiato e ogni problema si risolve quasi da sé (soprattutto dopo che la madre di Harriet e un'amica vedova si sono trasferite alla villa per dare una mano). Per alcuni anni si verifica una sorta di appiattimento temporale dominato da un'euforica convivialità e da un'indifferenziata vacanza, mentre i due protagonisti insistono nel loro sogno privo di anticoncezionali. Finché non arriva la quinta gravidanza, cioè una quinta sfida alla sorte. Già l'anomala vitalità del feto è un tetro segnale. La storia qui sembra rivelare un andamento metaforico, col Male che, infine, presenta il conto. Dopo pochi mesi Harriet è distrutta, e si fa prendere dai nervi. Scaramucce, tensioni, incredulità fra gli invitati permanenti che a ogni buon conto la perdonano: è stanca, si capisce, partorisce a getto continuo, e non ne può più. Qualcuno, infatti, suggerisce una pausa. Lei è inquieta, va dal medico, che però la rassicura. Ma più che una gravidanza sta affrontando un calvario. Il bambino si contorce, scalcia di brutto, e Harriet non riesce più a dormire. All'ottavo mese dà alla luce un mostro giallognolo di cinque chilogrammi, con un viso strano e lo sguardo freddo che non intenerisce nessuno. Tutti, in sua presenza, avvertono ripugnanza, se non proprio terrore. Chi è Ben? O meglio, cos'è? Cresce duro, scostante, ottuso, senza apprendere nulla, sviluppando una forza erculea che sperimenta qua e là, strangolando prima un cane, poi un gatto. Non ci sono prove, ma i parenti si allontanano poco a poco. La villa si svuota. La famiglia stessa si disunisce: David ammette che quella creatura non può essere "suo figlio", e teme per gli altri bambini - i quali, istintivamente, hanno già scartato il povero Ben. Il quinto figlio è allora spedito in una specie di Cottolengo inglese, costretto in una camicia di forza nell'attesa che tolga il disturbo fra gli escrementi. Ma Harriet (il fatale amore materno) non resiste, si fa cinque ore di macchina per raggiungere l'istituto e prelevare il suo bambino. Questo fatalismo distruttivo, che manderà all'aria il progetto iniziale, è l'aspetto preminente della parte centrale dell'opera. E il personaggio della madre si erge ridimensionando tutti gli altri, un po' gretti e deludenti al suo cospetto. Il libro è bello, senza retorica, sebbene vi aleggi un Eterno Ritorno della barbarie, con espliciti riferimenti all'involuzione degli anni Ottanta e al proliferare della criminalità da baby-gang. La prosa è asciutta, con un narratore onnisciente che a tratti fa rimpiangere soluzioni narrative più "moderne".

martedì 25 agosto 2015

La cura del mare

Oggi mare, con tuffo curativo secondo il rimedio degli antichi. Tutti gli interpellati mi assicurano che funziona, anche in rete si ribadisce che il raffreddore da mare si combatte in spiaggia. Ho qualche dubbio: giovedì, dopo la gran terapia del Poetto, mi è salita la febbre. E oggi sono entrato in acqua con oscuri pensieri di ricovero e polmoniti fulminanti (sulla falsariga della vecchia sapienza smentita). Però ci tenevo a non saltare l'appuntamento, per le nipotine... La loro gioia è più di un riempitivo, e i progressi fonetici della piccola sollecitano il papà logopedista che è in me. Vengono da un contesto famigliare insano, avvezze a sguardi in cui riverbera una follia morbosa e di gretto possesso, che non sa proteggerle né accompagnarle. Io credo basti poco per salvare un bambino: offrirgli un modello affettivo, delle modalità relazionali alternative, un sorriso e un incoraggiamento alla sua libertà d'espressione. Se un bambino vede lo spiraglio, la via di fuga, non appena gli sarà possibile fuggirà. Di contro, se non vede che miseria, finirà per diventare ciò che teme. Quindi ho fiducia. Direi quasi, per una volta, speranza.

domenica 23 agosto 2015

Il penoso attimo prima

Il cinema, quello d'autore in particolare, ha un problema col pene: i registi più audaci vorrebbero stanarlo ("sdoganarlo"), anche per un fatto di parità genitale col nudo femminile, ma quando si decidono a filmare il membro optano per una versione da ritirata, inoffensiva e, per così dire, apollinea. Nel grande schermo il pene è sempre piccolo. Bertolucci ci ha provato sia in "Novecento" (Robert De Niro e Gerard Depardieu manipolati dall'ambidestra Stefania Casini), che in "The dreamers", dove il muscolo in primo piano appare rilassatissimo, come appisolato nella poltroncina di un cinema d'essai. Qualcosa, insomma, non funziona; e il tentativo di emancipazione scade in una fiction depotenziata, laddove il realismo distoglie lo sguardo sempre un attimo prima che si verifichi l'erezione.

sabato 22 agosto 2015

Singin' in the rain

Oggi niente febbre. Ieri ho guardato Cantando sotto la pioggia. Una prima considerazione sui denti di Gene Kelly, abbacinanti: lo splendore di un sorriso che è già invito alla più scrupolosa igiene orale. Il film a tratti è un pastiche con morale della favola statunitense, cioè postmoderno e decrepito insieme. Non a caso, l'ottimismo di chi ce l'ha fatta (il divo Don Lockwood) non esclude i dubbi sulla propria identità artistica, e la malinconia del pagliaccio condannato a far ridere il suo pubblico. Una certa introspezione da diporto, tanto per drammatizzare il lieto fine annunciato e i milioni che, dal 1952, continuano a piovere. Più che altro, ho visto in Gene Kelly e Donanld O'Connor due superbi e affiatatissimi ballerini. L'agiografia ufficiale racconta che il primo girò la scena famosissima con la febbre a 39,4. Io a 37,5 barcollo e fatico a metter su il pentolino per il Vicks Tripla Azione. Ma, è chiaro, se vivessi a Hollywood smaltirei il virus ballando un tip tap.

giovedì 20 agosto 2015

La tonsilla destra, e facebook

Mi ha svegliato un forte mal di gola e il ricordo dello spray propoli tra i medicinali. Trovo sempre una buona scusa per non dormire, anche quando non c'è da scrivere. In verità avrei da correggere, revisionare, e spedire, ma ho rimandato i lavori di segreteria alla settimana prossima, tanto per rimettere su un po' di fiducia. E' una questione di energie spendibili, e al momento sono in riserva. Gente addentro al sistema mi ha rivelato che gli editori, ancor prima di leggere un inedito, considerano il numero di amici facebook del candidato, in modo da stimare una prima base di acquirenti. Mi sono messo subito una mano sulla coscienza, e ho iniziato una meticolosa escavazione col piccone e la pala del Trova amici. Tra i reperti rinvenuti, la maestra delle elementari, una Federica di cui mi innamorai a otto anni, la solita teppaglia rimossa, e una psicologa a cui ho preferito non inoltrare richieste di nessun tipo. In tre giorni sono passato da 105 a 146 amici, e già comincio a guardare con interesse le persone che "potrei conoscere".

martedì 4 agosto 2015

La pizza esistenziale

Sono uscito di casa per reagire a un senso di nausea spossatezza estraneità al mondo e spreco catastrofico di risorse. Anche per non lavare i piatti e perché non avevo alcuna intenzione di cucinare. In pizzeria, il galoppino palestrato che di solito mi vede in ciabatte aprirgli la porta dell'ascensore e allungargli una mancia simbolica (ma a lui i simboli piacciono), non credeva ai propri occhi. Ne ha subito approfittato per mostrare ai padroni (il pizzaiolo e l'uomo delle comande) quanto siamo in confidenza: si è lagnato di una fitta al cuore (gli anabolizzanti?), ha ammesso la dipendenza dall'esercizio fisico, nonostante la staticità del lavoro al manubrio etc. Tutto lì vicino alla cassa, dove c'è una piccola panca per l'attesa. Mi ci sono seduto, adagio, come per uno svenimento al rallentatore. Potevo comunque assistere alla preparazione della pizza, e lo psichismo serale si è dissolto nello spargimento di ingredienti, con la voce del galoppino fuori campo. Sì, mi è anche venuto un po' di appetito.