martedì 6 giugno 2017

LESSICO FAMIGLIARE di N. Ginzburg

Questo libro, celebratissimo, si colloca a un bivio fra Storia (interpretazione di fatti reali, documentati) e Letteratura (la loro rielaborazione in fiction). Sulla qualità della testimonianza non c’è granché da aggiungere: una ricca famiglia di ebrei torinesi, istruita e ben inserita, antifascista, con molti amici fra i notabili piemontesi e non solo, che ha partecipato in modo più o meno attivo alla vita culturale e politica d’Italia. Lo sfondo storico di “resistenza”, che si guadagna la scena nella seconda parte dell’opera, condiziona il giudizio sulla prima, in cui leggiamo perlopiù un diario di piccole manie gergali, provincialismi, capricci, invidie comunissime e un po’ stucchevoli. Il libro migliora al calar del Ventennio, con la sofferenza, il confino, la prigione e i lutti, imponendo il passe-partout di uno “spaccato” umano con pregi e difetti, e l’affermazione di una certa tensione morale. Siccome il problema è l’intento letterario, una pretesa stilistica in cui riverbera in particolare la lezione proustiana, e che è valsa comunque dei premi all’autrice (lo Strega del 1963), per agevolare il processo critico e restringere il campo è d’uopo una simulazione “romanzesca”: basterebbe cambiare i nomi, nella fattispecie quelli di Turati, Kuliscioff, Olivetti, Ginzburg, i Levi in blocco (compreso Carlo), Balbo e Pavese; e poi, a scanso di equivoci, darne uno falso a Giulio Einaudi, l’unico in Lessico Famigliare a non essere menzionato, e alla sua casa editrice (per esempio Federazione Italiana Autori Torino), in modo che queste persone siano tutte considerabili alla stregua di “personaggi” e il libro possa esser letto senza debiti più o meno presunti. L’opera, così svincolata, abbandonata al suo intrinseco valore artistico, offre una realtà di benestanti un po’ sessuofobi, che vanno “a spasso” in Corso Re Umberto, che ogni tanto hanno “pochi denari”, ma affittano case in montagna, che assurgono al ruolo di pionieri degli sport invernali e dello yogurt, che offendono la servitù, che spettegolano, che amano il socialismo e l’Inghilterra (?), che leggono Verlaine e Zola, e trascorrono intere serate a comparare la bellezza degli amici. La loro maturazione civile e morale si compie durante la guerra, cioè all’incirca dopo un centinaio di pagine in cui si erano mossi nell’agio di standard letterari acquisiti, in giacca da camera e pantofole, a tavola, o nel teatro burbero di vecchie baite espiative, al freddo volontario, con pasti frugali per vedere l’effetto che fa la miseria a lungo idealizzata durante l’anno. Occorrono bombe e macerie per renderli un po’ più simpatici – ma il rischio di un simile romanzo, qualora fosse inedito, è che nove editori su dieci non andrebbero oltre pagina cinquanta, abbandonando - chi prima, chi dopo. Il decimo, invece, potrebbe anche leggerlo per intero. Ma con diverse (complesse) perplessità. Intanto sul memoir in sé, il cimento dei dilettanti per antonomasia, perché se è vero che qualunque scrittore ne ha scritto uno, solo una minoranza ha avuto la spudoratezza di sfilarlo dal cassetto e darlo alle stampe. I ricordi, i panni sporchi di famiglia, rappresentano il sottoscala della letteratura, là dove la nevrosi compositiva è bypassata con una materia bell’e pronta. Gli ostacoli tecnici sono aggirati, spianati in una vaga cronologia con sporadici salti temporali - senza bisogno di raccordi, senza dar consistenza alle psicologie in atto, perché – come nel cinema onirico – ci sta un po’ tutto. Il decimo editore avrebbe inoltre delle remore sullo stile da maestra – una che dà a intendere di aver letto i grandi (soprattutto) di Francia, e che dispensa i dattiloscritti delle proprie fatiche a ogni collegio dei docenti: dialoghi infantili (per sottolineare l’eterna giovinezza di una donna anziana), sforzi bohemien che si schiantano con dignità in una soffitta parigina, l’andazzo generale, fra battibecchi e punzecchiature, che non si discosta poi tanto da Casa Vianello. Un Proust semplificato, senza subordinate e travestito da Simone de Beauvoir, confezionato per gli amici che se ne intendono, per chi a quei tempi c’era e ha parecchi motivi per leggere sino alla fine, o per chi avrebbe voluto esserci. Tutti gli altri avranno la sensazione di ritrovarsi in una sala d’aspetto e, giocoforza, di origliare. Io, pur non essendo editore, ho cercato a lungo un’idea letteraria, e trovato qualcosa che vi si avvicina a pagina 194: a proposito di Balbo è scritto: “Il suo parlare correva sul filo d’una ricerca disinteressata, pura e del tutto destituita di scopo. Ma usava far defluire alla casa editrice una parte di ciò che aveva appreso, come chi, cacando per pura necessità di cacare, è tuttavia consapevole di concimare un campo.”

giovedì 1 giugno 2017

LA DOPPIA VITA DI VERONICA di K. Kieslovski

DIVORZIO A BUDA di S. Marai

Bisogna leggerlo, in primo luogo perché è l'opera di uno scrittore purissimo, in secondo perché esprime senza ambiguità, nero su bianco, il grado di necessaria repressione che fonda l'uomo civilizzato. Il protagonista, Kristòf, è un giudice che aderisce al suo ruolo specifico, e all'idea di famiglia, con la determinazione di non perdere mai la rotta, nonostante la società ungherese sia già minata da intemperanze e nevrosi, e l'Europa, caduti gli imperi e il formalismo che li caratterizzava, si avvii a una nuova guerra. In questo lavoro di controllo individuale, di avanzata rettilinea, Kristòf è aiutato da una fede che non nega gli ostacoli, ma li affronta nell'ambito di una vera e propria trincea: la Coscienza. L'Inconscio affiora, scalpita; i sogni svelano i desideri più profondi, quello scarto prodotto dalla rinuncia, ma lui si aggrappa agli affetti, alla realtà intesa come insieme di scelte razionali difese con disperata coerenza. E' l'uomo a dover proteggere Dio, non il contrario, soprattutto al raggiungimento della piena maturità, quando crolla, di fatto, ogni ultimo significato dell'esistenza, e si configura un destino finito, in cui l'amore cessa e appare, nuda, la morte. Questo momento è avvertito con lievi vertigini e barcollamenti, si è costretti a procedere reggendosi a fatica, si brancola, perché è notte, e si insiste con la certezza che presto sarà giorno. Il conformismo "illuminato" di Kristòf, i suoi pudori, non indispongono nella misura in cui sono consapevoli, dettati da una legge morale ragionata, che pone la Vita, cioè la sopravvivenza civile, al primo posto. Il Bene è un male minore, una sopportazione cristiana priva di dogmi che ambisce a costruire e ampliare sulla base di ciò che la Storia ha tramandato - quindi senza distruggere, anzi, rifuggendo dalla stessa possibilità di una tabula rasa. I residui di questo cammino sono terribili, occasioni mancate, amori inespressi, sentimenti implosi, confinati ai margini - come pietre miliari che scandiscono la marcia un po' funebre dello stare al mondo con un ruolo, una funzione e un destino. Ecco perché il giudice diventa spessissimo imputato, anche al cospetto del vecchio amico Imre Greiner, marito di una donna che Kristòf ha incontrato solo quattro volte nella sua vita, ma che rappresenta il simbolo più vivo e struggente dell'Inconscio. La finezza di Sandor Marai è tutta in questa trama di relazioni inesprimibili, che unisce punti lontanissimi nello Spazio e nel Tempo con linee evanescenti e, in qualche modo, naturali.