giovedì 10 settembre 2015

Sangue dal cielo

In questo romanzo piove un po’ troppo. Si comincia a imbarcare acqua fin dalla prima pagina, e poi via a precipitazioni sparse, anche di una certa intensità. Ma è niente rispetto al diluvio lessicale che attinge dall’italiano, dal barbaricino, e da quell’ineluttabile mescolamento che troviamo nel “popolo”. In tanti scrittori contemporanei (tutti radicatissimi nella propria terra) c’è una nostalgia del pensiero rustico – ma filtrato, riorganizzato in termini editoriali fino alla parodia più o meno involontaria. Riprodurre l’ingenuità implica una prosopopea odiosa, cioè un complesso di superiorità da fini letterati (...), e l’esito – non di meno – è piuttosto goffo. In pochi, tuttavia, sembrano accorgersene. Questi libri contaminati, tra Arcadia e folclorismo, si vendono. Piovono fitti in libreria. Spesso si parla di “stile”, piuttosto che di moda. O di “poetica”, in luogo di operazione editoriale. Un’operazione scrupolosa, che si regge sulle specialità del posto con erudite concessioni al vocabolario alto, e a una fraseologia da ricamo industriale. Ma di cosa si sta parlando? Di un giallo sardo: omicidi, indagini, macchiette di provincia che vanno e vengono sullo schermo aristocratico del narratore Poeta. Concetti poveri che, in balia di una studiatissima prolissità, sembrano già qualcos’altro (filosofia?). Descrizioni minuziose, leccate, che lasciano sgomenti come un quadro iperrealista. E, ancora, similitudini dell’entroterra, metafore da agriturismo, etnografia velata di politica (non troppo, però). Consigliatissimo per capire lo stato della narrativa italiana.

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